"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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aveva prestato, i consigli che mi aveva dato. Fece cenno di sì, un po’

imbronciato, si ricordò che la professoressa, tempo prima, aveva prestato uno di quei testi anche a lui e cominciò a parlarmene. Ma io avevo sempre più urgenza di gratificazioni che mi distraessero da Antonio, e gli chiesi senza alcun nesso: «La rivista quando esce?».

Mi fissò con uno sguardo incerto, lievemente in apprensione: «È uscita un paio di settimane fa».

Ebbi un sussulto di gioia, gli chiesi: «Dove la trovo?».

«La vendono alla libreria Guida. Comunque te la posso procurare io».

«Grazie».

Esitò, poi disse:

«Il tuo pezzo però non l’hanno messo, è risultato che non c’era spazio».

Alfonso ebbe subito un sorriso di sollievo, mormorò: «Meno male».

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62.

Avevamo sedici anni. Io ero di fronte a Nino Sarratore, ad Alfonso, a Marisa, e mi sforzavo di sorridere, dicevo con finta noncuranza: «Va bene, ci sarà un’altra occasione»; Lila si trovava all’altro capo della sala – era la sposa, la regina della festa – e Stefano le parlava all’orecchio e lei sorrideva.

Il lungo, estenuante pranzo di nozze era al termine. L’orchestrina suonava, il cantante cantava. Antonio, di spalle, si comprimeva nel petto il malessere che gli avevo causato e guardava il mare. Enzo forse stava mormorando a Carmela che le voleva bene. Rino sicuramente l’aveva già fatto con Pinuccia, che gli parlava guardandolo fisso negli occhi. Pasquale con tutta probabilità ci stava girando intorno spaventato, ma Ada avrebbe fatto in modo, prima che la festa finisse, di strappargli di bocca le parole necessarie. Si accavallavano da tempo brindisi con allusioni oscene e brillava in quell’arte il commerciante di metalli. Il pavimento era chiazzato di sughi schizzati da un piatto sfuggito a un bambino, di vino caduto al nonno di Stefano. Ingoiai le lacrime. Pensai: forse pubblicheranno le mie righe nel prossimo numero, forse Nino non ha insistito abbastanza, forse avrei fatto bene a occuparmene io stessa. Ma non dissi niente, continuai a sorridere, trovai persino la forza di dire:

«Del resto col prete ci avevo già litigato una volta, litigarci una seconda sarebbe stato inutile».

«Infatti» disse Alfonso.

Ma niente attenuava la delusione. Mi dibattevo per sottrarmi a una sorta di oscuramento nella testa, un doloroso calo di tensione, e non ci riuscivo.

Scoprii che avevo considerato la pubblicazione di quelle poche righe, la mia firma stampata, come il segno che avevo realmente un destino, che la fatica dello studio portava di sicuro in alto, da qualche parte, che la maestra Oliviero aveva avuto ragione a spingere avanti me e ad abbandonare Lila.

«Sai cos’è la plebe?». «Sì, maestra». Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi . La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel

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pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli.

Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.

Probabilmente nauseato dallo spettacolo in atto, Nino si alzò, disse che andava. Si mise d’accordo con Marisa per tornare a casa insieme e Alfonso promise di accompagnarla all’ora e nel luogo stabiliti. Lei sembrò molto fiera di avere un cavaliere così compito. Dissi a Nino, incerta:

«Non vuoi salutare la sposa?».

Fece un gesto largo, farfugliò qualcosa sul proprio abbigliamento e senza nemmeno una stretta di mano, un cenno qualsiasi a me o ad Alfonso, andò verso la porta con la solita andatura dondolante. Sapeva entrare e uscire dal rione come voleva, senza farsene contaminare. Poteva farlo, era capace di farlo, forse l’aveva imparato anni prima, all’epoca del burrascoso trasloco che quasi gli era costato la vita.

Io dubitai di farcela. Studiare non serviva: potevo prendere dieci ai compiti, ma quella era solo scuola; invece chi lavorava alla rivista aveva annusato il mio resoconto, il resoconto mio e di Lila, e non l’aveva stampato.

Nino sì, poteva tutto: aveva il viso, i gesti, l’andatura di chi avrebbe fatto sempre meglio. Quando sparì mi sembrò che fosse sparita l’unica persona in tutta la sala che aveva l’energia per trascinarmi via.

Dopo ebbi l’impressione che la porta del ristorante si chiudesse per un colpo di vento. In realtà non ci fu vento e nemmeno urto di battenti. Accadde solo quello che era prevedibile che accadesse. Comparvero giusto per la torta, per la bomboniera, i bellissimi, elegantissimi fratelli Solara. Si mossero per la sala salutando questo e quello al loro modo padronale. Gigliola buttò le braccia al collo di Michele e lo trascinò a sedere accanto a sé. Lila, con un rossore improvviso sulla gola e intorno agli occhi, tirò energicamente il marito per il braccio e gli disse qualcosa all’orecchio. Silvio fece un cenno fiacco ai figli, Manuela se li guardò con orgoglio di madre. Il cantante attaccò Lazzarella, imitando discretamente Aurelio Fierro. Rino fece accomodare Marcello con un sorriso amichevole. Marcello sedette, si allentò la cravatta, accavallò le gambe.

L’imprevedibile si rivelò solo a quel punto. Vidi Lila perdere colore, diventare pallidissima come era da bambina, più bianca del suo abito da

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sposa, e gli occhi ebbero quell’improvvisa contrazione che li mutava in fessure. Aveva davanti una bottiglia di vino e temetti che il suo sguardo la trapassasse con una violenza tale da mandarla in mille pezzi, col vino che schizzava ovunque. Ma non stava guardando la bottiglia. Guardava più lontano, guardava le scarpe di Marcello Solara.

Erano scarpe Cerullo per uomo. Non il modello in vendita, non quello con la fibbia dorata. Marcello aveva ai piedi le scarpe acquistate tempo prima da Stefano, suo marito. Era il paio che lei aveva realizzato insieme a Rino facendo e disfacendo per mesi, rovinandosi le mani.

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NOTA SULL’AUTRICE

Elena Ferrante è autrice di un romanzo, L’amore molesto, da cui Mario Martone ha tratto il film omonimo. Dal romanzo successivo, I giorni dell’abbandono, è stata realizzata la pellicola di Roberto Faenza. Nel volume La frantumaglia racconta la sua esperienza di scrittrice. Nel 2006 le Edizioni E/O hanno pubblicato il romanzo La figlia oscura e nel 2007 il racconto per bambini La spiaggia di notte.

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Quarta di copertina dell’edizione cartacea Care lettrici, cari lettori, provate a leggere questo libro e vorrete che non finisca mai.

Elena Ferrante, con il suo nuovo romanzo,

torna a sorprenderci, a spiazzarci, regalandoci una narrazione-fiume cui ci si affida come quando si fa un viaggio con un tale piacevole agio, con un tale intenso coinvolgimento, che la meta più è lontana e meglio è. L’autrice abbandona la piccola, densa storia privata e si dedica a un vasto progetto di scrittura che racconta un’amicizia femminile,

quella tra Lila Cerullo ed Elena Greco,

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