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Ed ella non mi amò quant’io l’amai?

— (Mai).

Or chi sei tu che sì ti lagni meco?

— (Eco).

E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d’un altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton l’Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite.

— Udite, udite quest’altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:

A un tempo stesso io mi son una, e due,E fo due ciò ch’era una primamente.

Una mi adopra con le cinque sue

Contra infiniti che in capo ha la gente.

Tutta son bocca dalla cinta in sue,

E più mordo sdentata che con dente.

Ho due bellichi a contrapposti siti,

Gli occhi ho ne’ piedi, e spesso a gli occhi i diti.

Mi pare di vederlo ancora, nell’atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.

Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone c’insegnava; e credeva fors’anche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la quale – non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino – s’era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s’imbatté in me per una delle stanze abbandonate; m’afferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: —

Bellino! bellino! bellino! — e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra i denti:

— Muso di cane!

Ce l’aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove.

Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero l’occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest’occhio non m’avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.

A diciott’anni m’invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.

Forse, se fosse in facoltà dell’uomo la scelta d’un naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un pover’uomo oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo dirgli: « Questo naso sta bene a me, e me lo piglio; » forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.

Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.

Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le mal’annate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne.

— Abbiamo avuto un’altra bella bussata! — diceva ogni volta, entrando.

La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il podere della Stìa, col molino. Mia madre s’aspettava ch’egli un giorno venisse a dire ch’era seccata la sorgiva.

Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui.

Egli ebbe l’arte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma quell’agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere l’abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.

Il mio matrimonio, invece…

— Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?

Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:

— E come no? Sicuro. Pulitamente…

— Ma che pulitamente! Voi sapete bene che…

Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:

— S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono…

Ce l’ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.

Coraggio, dunque; avanti!

IV: Fu così

Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo.

— Ti conosco, — gli dicevo, — ti conosco…

Poi, a un tratto, esclamai:

Are sens

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