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— Bella città Milano, eh?

— Bella, già…

Parevo un pappagallo ammaestrato. E più le sue domande mi stringevano, e io con le mie risposte m’allontanavo. E ben presto fui in America. Ma come l’ometto mio seppe ch’ero nato in Argentina, balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente la mano:

— Ah, mi felicito con lei, caro signore! La invidio! Ah, l’America… Ci sono stato.

C’era stato? Scappa!

— In questo caso, — m’affrettai a dirgli, — debbo io piuttosto felicitarmi con lei che c’è stato, perché io posso quasi quasi dire di non esserci stato, tuttoché nativo di là; ma ne venni via di pochi mesi; sicché dunque i miei piedi non han proprio toccato il suolo americano, ecco!

— Che peccato! — esclamò dolente il cavalier Tito Lenzi. — Ma lei ci avrà parenti, laggiù, m’immagino!

— No, nessuno…

— Ah, dunque, è venuto in Italia con tutta la famiglia, e vi si è stabilito?

Dove ha preso stanza?

Mi strinsi ne le spalle:

— Mah! — sospirai, tra le spine, — un po’ qua, un po’ là… Non ho famiglia e… e giro.

— Che piacere! Beato lei! Gira… Non ha proprio nessuno?

— Nessuno…

— Che piacere! beato lei! la invidio!

— Lei dunque ha famiglia? — volli domandargli, a mia volta, per deviare da me il discorso.

— E no, purtroppo! — sospirò egli allora, accigliandosi. — Son solo e sono stato sempre solo!

— E dunque, come me!…

— Ma io mi annojo, caro signore! m’annojo! — scattò l’ometto. — Per me, la solitudine… eh sì, infine, mi sono stancato. Ho tanti amici; ma, creda pure, non è una bella cosa, a una certa età, andare a casa e non trovar nessuno. Mah! C’è chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia e

senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: «Io non devo far questo, non devo far quest’altro, per non commettere questa o quella bestialità».

Benissimo! Ma a un certo punto s’accorge che la vita è tutta una bestialità, e allora dica un po’ lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore.

— Ma lei, — mi provai a confortarlo, — lei è ancora in tempo, fortunatamente…

— Di commettere bestialità? Ma ne ho già commesse tante, creda pure! —

rispose con un gesto e un sorriso fatuo. — Ho viaggiato, ho girato come lei e… avventure, avventure… anche molto curiose e piccanti… sì, via, me ne son capitate. Guardi, per esempio, a Vienna, una sera…

Cascai dalle nuvole. Come! Avventure amorose, lui? Tre, quattro, cinque, in Austria, in Francia, in Italia… anche in Russia? E che avventure! Una più ardita dell’altra… Ecco qua, per dare un altro saggio, un brano di dialogo tra lui e una donna maritata:

LUI:

— Eh, a pensarci, lo so, cara signora… Tradire il marito, Dio mio! La fedeltà, l’onestà, la dignità… tre grosse, sante parole, con tanto d’accento su l’ a. E poi: l’onore! altra parola enorme… Ma, in pratica, credete, è un’altra cosa, cara signora: cosa di pochissimo momento!

Domandate alle vostre amiche che ci si sono avventurate.

LA DONNA MARITATA:

— Sì; e tutte quante han provato poi un grande disinganno!

LUI:

— Ma sfido! ma si capisce! Perché impedite, trattenute da quelle parolacce, hanno messo un anno, sei mesi, troppo tempo a risolversi. E

il disinganno diviene appunto dalla sproporzione tra l’entità del fatto e il troppo pensiero che se ne son date. Bisogna risolversi subito, cara signora! Lo penso, lo faccio. È così semplice!

Bastava guardarlo, bastava considerare un poco quella sua minuscola ridicola personcina, per accorgersi ch’egli mentiva, senza bisogno d’altre prove.

Allo stupore seguì in me un profondo avvilimento di vergogna per lui, che non si rendeva conto del miserabile effetto che dovevano naturalmente produrre quelle sue panzane, e anche per me che vedevo mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui che non ne avrebbe avuto alcun bisogno; mentre io, che non potevo farne a meno, io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni volta, torcer l’anima dentro.

Avvilimento e stizza. Mi veniva d’afferrargli un braccio e di gridargli:

«Ma scusi, cavaliere, perché? perché?»

Se però erano ragionevoli e naturali in me l’avvilimento e la stizza, mi accorsi, riflettendoci bene, che sarebbe stata per lo meno sciocca quella domanda. Infatti, se il caro ometto imbizzarriva così a farmi credere a quelle sue avventure, la ragione era appunto nel non aver egli alcun bisogno di mentire; mentre io… io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che per lui, insomma, poteva essere uno spasso e quasi l’esercizio d’un diritto, era per me, all’incontro, obbligo increscioso, condanna.

E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né amici… Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co’ miei simili un breve scambio di parole aliene.

Ebbene, erano gl’inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi sarei scoraggiato per questo?

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