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Si buttava sul letto, e subito tutto il vino bevuto le riveniva fuori trasformato in un infinito torrente di lagrime. Toccava allora alla povera piccola mammina in veste da camera vegliarla, confortarla fino a tarda notte: ne aveva pietà, pietà che vinceva la nausea: la sapeva sola al mondo e infelicissima, con quella rabbia in corpo che le faceva odiar la vita, a cui già due volte aveva attentato; la induceva pian piano a prometterle che sarebbe stata buona, che non l’avrebbe fatto più; e sissignori, il giorno appresso se la vedeva comparire tutta infronzolata e con certe mossette da scimmia, trasformata di punto in bianco in bambina ingenua e capricciosa.

Le poche lire che le avveniva di guadagnare di tanto in tanto facendo provar le canzonette a qualche attrice esordiente di caffè-concerto, se n’andavano così o per bere o per infronzolarsi, ed ella non pagava né l’affitto della camera né quel po’ che le davano da mangiare là in famiglia. Ma non si poteva mandar via. Come avrebbe fatto il signor Anselmo Paleari per i suoi esperimenti spiritici?

C’era in fondo, però, un’altra ragione. La signorina Caporale, due anni avanti, alla morte della madre, aveva smesso casa e, venendo a viver lì dai Paleari, aveva affidato circa sei mila lire, ricavate dalla vendita dei mobili, a Terenzio Papiano, per un negozio che questi le aveva proposto, sicurissimo e lucroso: le sei mila lire erano sparite.

Quando ella stessa, la signorina Caporale, lagrimando, mi fece questa confessione, io potei scusare in qualche modo il signor Anselmo Paleari, il quale per quella sua follia soltanto m’era parso dapprima che tenesse una donna di tal risma a contatto della propria figliuola.

È vero che per la piccola Adriana, che si dimostrava così istintivamente buona e anzi troppo savia, non v’era forse da temere: ella infatti più che d’altro si sentiva offesa nell’anima da quelle pratiche misteriose del padre, da quell’evocazione di spiriti per mezzo della signorina Caporale.

Era religiosa la piccola Adriana. Me ne accorsi fin dai primi giorni per via di un’acquasantiera di vetro azzurro appesa a muro sopra il tavolino da notte, accanto al mio letto. M’ero coricato con la sigaretta in bocca, ancora accesa, e m’ero messo a leggere uno di quei libri del Paleari; distratto, avevo poi posato il mozzicone spento in quell’acquasantiera. Il giorno dopo, essa non c’era più. Sul tavolino da notte, invece, c’era un portacenere.

Volli domandarle se la avesse tolta lei dal muro; ed ella, arrossendo leggermente, mi rispose:

— Scusi tanto, m’è parso che le bisognasse piuttosto un portacenere.

— Ma c’era acqua benedetta nell’acquasantiera?

— C’era. Abbiamo qui dirimpetto la chiesa di San Rocco…

E se n’andò. Mi voleva dunque santo quella minuscola mammina, se al fonte di San Rocco aveva attinto l’acqua benedetta anche per la mia acquasantiera? Per la mia e per la sua, certamente. Il padre non doveva usarne. E nell’acquasantiera della signorina Caporale, seppure ne aveva, vin santo, piuttosto.

Ogni minimo che – sospeso come già da un pezzo mi sentivo in un vuoto strano – mi faceva ora cadere in lunghe riflessioni. Questo dell’acquasantiera m’indusse a pensare che, fin da ragazzo, io non avevo più atteso a pratiche religiose, né ero più entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a

me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala morte senza conforti religiosi.

Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che mi conoscevano, io mi ero tolto – bene o male – il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte.

Chi sa quanti, a Miragno, dicevano:

— Beato lui, alla fine! Comunque sia, ha risolto il problema.

E non avevo risolto nulla, io, intanto. Mi trovavo ora coi libri d’Anselmo Paleari tra le mani, e questi libri m’insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione, nei «gusci» del Kâmaloka, specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral (premier degré du monde invisible, d’après la théosophie), raffigura come eccitati da ogni sorta d’appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch’essi però ignorano d’aver perduto.

«Oh, guarda un po’,» pensavo, «ch’io quasi quasi potrei credere che mi sia davvero affogato nel molino della Stìa, e che intanto mi illuda di vivere ancora.»

Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s’attaccò. Non che credessi veramente di esser morto: non sarebbe stato un gran male, giacché il forte è morire, e, appena morti, non credo che si possa avere il tristo desiderio di ritornare in vita. Mi accorsi tutt’a un tratto che dovevo proprio morire ancora: ecco il male! Chi se ne ricordava più? Dopo il mio suicidio alla Stìa, io naturalmente non avevo veduto più altro, innanzi a me, che la vita.

Ed ecco qua, ora: il signor Anselmo Paleari mi metteva innanzi di continuo l’ombra della morte.

Non sapeva più parlar d’altro, questo benedett’uomo! Ne parlava però con tanto fervore e gli scappavan fuori di tratto in tratto, nella foga del discorso, certe immagini e certe espressioni così singolari, che, ascoltandolo, mi passava subito la voglia di cavarmelo d’attorno e d’andarmene ad abitare altrove. Del resto, la dottrina e la fede del signor Paleari, tuttoché mi

sembrassero talvolta puerili, erano in fondo confortanti; e, poiché purtroppo mi s’era affacciata l’idea che, un giorno o l’altro, io dovevo pur morire sul serio, non mi dispiaceva di sentirne parlare a quel modo.

— C’è logica? — mi domandò egli un giorno, dopo avermi letto un passo di un libro del Finot, pieno d’una filosofia così sentimentalmente macabra, che pareva il sogno d’un becchino morfinomane, su la vita nientemeno dei vermi nati dalla decomposizione del corpo umano.— C’è logica? Materia, sì, materia: ammettiamo che tutto sia materia. Ma c’è forma e forma, modo e modo, qualità e qualità: c’è il sasso e l’etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo, c’è l’unghia, il dente, il pelo, e c’è perbacco il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia anch’essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l’unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l’etere, o che so io. L’etere, sì, l’ammettete come ipotesi, e l’anima no? C’è logica?

Materia, sissignore. Segua il mio ragionamento, e veda un po’ dove arrivo, concedendo tutto. Veniamo alla Natura. Noi consideriamo adesso l’uomo come l’erede di una serie innumerevole di generazioni, è vero? come il prodotto di una elaborazione ben lenta della Natura. Lei, caro signor Meis, ritiene che sia una bestia anch’esso, crudelissima bestia e, nel suo insieme, ben poco pregevole? Concedo anche questo, e dico: sta bene, l’uomo rappresenta nella scala degli esseri un gradino non molto elevato; dal verme all’uomo poniamo otto, poniamo sette, poniamo cinque gradini. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all’uomo; s’è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia, signor Meis, e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt’a un tratto, pàffete, torna zero? C’è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l’anima mia, per bacco! materia anch’essa, sissignore, chi vi dice di no? ma non come il mio naso o come il mio piede. C’è logica?

— Scusi, signor Paleari, — gli obbiettai io, — un grand’uomo passeggia, cade, batte la testa, diventa scemo. Dov’è l’anima?

Il signor Anselmo restò un tratto a guardare, come se improvvisamente gli fosse caduto un macigno innanzi ai piedi.

— Dov’è l’anima?

— Sì, lei o io, io che non sono un grand’uomo, ma che pure… via, ragiono: passeggio, cado, batto la testa, divento scemo. Dov’è l’anima?

Il Paleari giunse le mani e, con espressione di benigno compatimento, mi rispose:

— Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis?

— Per un’ipotesi…

— Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente. Prendiamo i vecchi che, senza bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi. Ebbene, che vuol dire? Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l’anima, per dimostrar così che l’estinzione dell’uno importi l’estinzione dell’altra? Ma scusi! Immagini un po’ il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell’anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi, come per esempio Sua Santità Leone XIII! E dunque? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore?

— Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l’anima?

— Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza l’anima s’appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento, pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un’altra questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l’umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l’aspirazione a un’altra vita, di là? È un fatto, questo, un fatto, una prova reale.

— Dicono: l’istinto della conservazione…

— Ma nossignore, perché me n’infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla; ma se mi provano, perdiana, che – dopo averla sopportata per altri cinque o sei o dieci anni – io non avrò pagato lo scotto in qualche modo, e che tutto finirà lì, ma io la butto via oggi stesso, in questo stesso momento: e dov’è allora l’istinto della conservazione? Mi conservo unicamente perché sento che non può finire così! Ma altro è l’uomo singolo, dicono, altro è l’umanità.

L’individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un po’! Come se l’umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant’anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l’umanità? Ma se l’umanità anch’essa un giorno dovrà finire? Pensi un po’: e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente? E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste… Guarigione dell’astro, è vero? come ha detto lei l’altro giorno.

Va bene: guarigione; ma bisogna vedere in che senso. Il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che vuole occuparsi della vita soltanto.

— Eh, — sospirai io, sorridendo, — poiché dobbiamo vivere…

— Ma dobbiamo anche morire! — ribatté il Paleari.

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