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— Capisco; perché però pensarci tanto?

— Perché? ma perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte.

— Col bujo che ci fa?

— Bujo? Bujo per lei! Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l’olio puro dell’anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo

inventato! Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bisogno di quell’altra che ci faccia un po’

di luce per la morte. Guardi, io provo anche, certe sere, ad accendere un certo lanternino col vetro rosso; bisogna ingegnarsi in tutti i modi, tentar comunque di vedere. Per ora, mio genero Terenzio è a Napoli. Tornerà fra qualche mese, e allora la inviterò ad assistere a qualche nostra modesta sedutina, se vuole. E chi sa che quel lanternino… Basta, non voglio dirle altro.

Come si vede, non era molto piacevole la compagnia di Anselmo Paleari.

Ma, pensandoci bene, potevo io senza rischio, o meglio, senza vedermi costretto a mentire, aspirare a qualche altra compagnia men lontana dalla vita? Mi ricordavo ancora del cavalier Tito Lenzi. Il signor Paleari invece non si curava di saper nulla di me, pago dell’attenzione ch’io prestavo a’

suoi discorsi. Quasi ogni mattina, dopo la consueta abluzione di tutto il corpo, mi accompagnava nelle mie passeggiate; andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte.

«Ed ecco che bel guadagno ho fatto io,» pensavo, «a non esser morto davvero!»

Tentavo qualche volta di trarlo a parlar d’altro; ma pareva che il signor Paleari non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno; camminava quasi sempre col cappello in mano; a un certo punto, lo alzava come per salutar qualche ombra ed esclamava:

— Sciocchezze!

Una sola volta mi rivolse, all’improvviso, una domanda particolare:

— Perché sta a Roma lei, signor Meis?

Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:

— Perché mi piace di starci…

— Eppure è una città triste, — osservò egli, scotendo il capo. — Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta.

— Morta anche Roma? — esclamai, costernato.

— Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? Guardi, signor Meis.

Mia figlia Adriana mi ha detto dell’acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse dalla camera, quell’acquasantiera; ma, l’altro giorno, le cadde di mano e si ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, su la mia scrivania, adibita all’uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l’identico. I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende –

un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.

XI: Di sera, guardando il fiume Man mano che la familiarità cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori.

— Libero! — dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà.

Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio.

— Libertà… libertà… — mormoravo. — Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove?

Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. «Ecco la vita!» pensavo. E

seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand’era sola, fingeva di non accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch’io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle?

Ecco, ella ora, posato l’annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell’atteggiamento, e bisogno di solitudine.

Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e:

«Perché, del resto,» mi domandavo, «dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento forse un’umiliazione per lei.

Forse ella rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno d’affittar camere e d’avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le faccio forse paura, povera bambina, con quest’occhio e con questi occhiali…».

Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo i libri, restavo un po’ perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori, da quella noja smaniosa.

Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.

Ritornando per via Borgo Nuovo, m’imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po’ il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio:

— Allegro!

Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi.

— Allegro! — ripeté, accompagnando l’esortazione con un gesto della mano che significava: «Che fai? che pensi? non ti curar di nulla!».

E s’allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro.

A quell’ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch’esso mi aveva suscitati, l’apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m’intronarono: restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell’uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata.

«Allegro! Sì, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l’allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual’è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà… Torniamo a casa!»

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