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— Non è vero! — gridò Adriana. — Non ci creda, signor Meis! È stata lei, invece… Io…

Scoppiò in lagrime, improvvisamente, la cara mammina. Subito la Caporale cercò di confortarla, dicendole:

— Ma no, via! che c’entra! che c’è di male?

Adriana la respinse con un gomito:

— C’è di male che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parlavamo degli attori di teatro che sono tutti… così, e allora tu hai detto: « Come il signor Meis! Chi sa perché non si fa crescere almeno i baffi?…», e io ho ripetuto: « Già, chi sa perché…».

— Ebbene, — riprese la Caporale, — chi dice « Chi sa perché…», vuol dire che vuol saperlo!

— Ma l’hai detto prima tu! — protestò Adriana, al colmo della stizza.

— Posso rispondere? — domandai io per rimetter la calma.

— No, scusi, signor Meis: buona sera! — disse Adriana, e si alzò per andar via.

Ma la Caporale la trattenne per un braccio:

— Eh via, come sei sciocchina! Si fa per ridere… Il signor Adriano è tanto buono, che ci compatisce. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei…

perché non si fa crescere almeno i baffi.

Questa volta Adriana rise, con gli occhi ancora lagrimosi.

— Perché c’è sotto un mistero, — risposi io allora, alterando burlescamente la voce. — Sono congiurato!

— Non ci crediamo! — esclamò la Caporale con lo stesso tono; ma poi soggiunse: — Però, senta: che è un sornione non si può mettere in dubbio.

Che cosa è andato a fare, per esempio, oggi dopopranzo alla Posta?

— Io alla Posta?

— Sissignore. Lo nega? L’ho visto con gli occhi miei. Verso le quattro…

Passavo per piazza San Silvestro…

— Si sarà ingannata, signorina: non ero io.

— Già, già, — fece la Caporale, incredula. — Corrispondenza segreta…

Perché, è vero, Adriana?, non riceve mai lettere in casa questo signore. Me l’ha detto la donna di servizio, badiamo!

Adriana s’agitò, seccata, su la seggiola.

— Non le dia retta, — mi disse, rivolgendomi un rapido sguardo dolente e quasi carezzevole.

— Né in casa, né ferme in posta! — risposi io. — È vero purtroppo!

Nessuno mi scrive, signorina, per la semplice ragione che non ho più nessuno che mi possa scrivere.

— Nemmeno un amico? Possibile? Nessuno?

— Nessuno. Siamo io e l’ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso, quest’ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un’amicizia duratura.

— Beato lei, — esclamò la Caporale, sospirando, — che ha potuto viaggiare tutta la vita! Ci parli almeno de’ suoi viaggi, via, se non vuol parlarci d’altro.

A poco a poco, superati gli scogli delle prime domande imbarazzanti, scansandone alcuni coi remi della menzogna, che mi servivan da leva e da puntello, aggrappandomi, quasi con tutte e due le mani, a quelli che mi stringevano più da presso, per girarli pian piano, prudentemente, la barchetta della mia finzione poté alla fine filare al largo e issar la vela della fantasia.

E ora io, dopo un anno e più di forzato silenzio, provavo un gran piacere a parlare, a parlare, ogni sera, lì nel terrazzino, di quel che avevo veduto, delle osservazioni fatte, degli incidenti che mi erano occorsi qua e là.

Meravigliavo io stesso d’avere accolto, viaggiando, tante impressioni, che il silenzio aveva quasi sepolte in me, e che ora, parlando, risuscitavano, mi balzavan vive dalle labbra. Quest’intima meraviglia coloriva straordinariamente la mia narrazione; dal piacere poi che le due donne, ascoltando, dimostravano di provarne, mi nasceva a mano a mano il rimpianto d’un bene che non avevo allora realmente goduto; e anche di questo rimpianto s’insaporava ora la mia narrazione.

Dopo alcune sere, l’atteggiamento, il tratto della signorina Caporale erano radicalmente mutati a mio riguardo. Gli occhi dolenti le si appesantirono d’un languore così intenso, che richiamavan più che mai l’immagine del contrappeso di piombo interno, e più che mai buffo apparve il contrasto fra essi e la faccia da maschera carnevalesca. Non c’era dubbio: s’era innamorata di me la signorina Caporale!

Dalla sorpresa ridicolissima che ne provai, m’accorsi intanto che io, in tutte quelle sere, non avevo parlato affatto per lei, ma per quell’altra che se n’era stata sempre taciturna ad ascoltare. Evidentemente però quest’altra aveva anche sentito ch’io parlavo per lei sola, giacché subito tra noi si stabilì come una tacita intesa di pigliarci a godere insieme il comico e impreveduto

effetto de’ miei discorsi sulle sensibilissime corde sentimentali della quarantenne maestra di pianoforte.

Ma, con questa scoperta, nessun pensiero men che puro entrò in me per Adriana: quella sua candida bontà soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella prima confidenza quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene. Era un fuggevole sguardo, come il lampo d’una grazia dolcissima; era un sorriso di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche benevolo richiamo ch’ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento del capo, se io eccedevo un po’, per il nostro spasso segreto, nel dar filo di speranza all’aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine, ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta.

— Lei non deve aver molto cuore, — mi disse una volta la Caporale, — se è vero ciò che dice e che io non credo, d’esser passato finora incolume per la vita.

— Incolume? come?

— Sì, intendo senza contrarre passioni…

— Ah, mai, signorina, mai!

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