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— Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell’anellino che si fece tagliare da un orefice perché le serrava troppo il dito…

— E mi faceva male! Non gliel’ho detto? Ma sì! Era un ricordo del nonno, signorina.

— Bugia!

— Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m’aveva regalato quell’anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizi, e sa perché? perché io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m’ebbi l’anellino, comprato in una delle bacheche a Ponte Vecchio. Il nonno infatti riteneva fermamente, non so per quali sue ragioni, che quel quadro del

Perugino dovesse invece essere attribuito a Raffaello. Ecco spiegato il mistero! Capirà che tra la mano d’un giovinetto di dodici anni e questa manaccia mia, ci corre. Vede? Ora son tutto così, come questa manaccia che non comporta anellini graziosi. Il cuore forse ce l’avrei; ma io sono anche giusto, signorina; mi guardo allo specchio, con questo bel pajo d’occhiali, che pure sono in parte pietosi, e mi sento cader le braccia: «Come puoi tu pretendere, mio caro Adriano,» dico a me stesso, «che qualche donna s’innamori di te?».

— Oh che idee! — esclamò la Caporale. — Ma lei crede d’esser giusto, dicendo così? È ingiustissimo, invece, verso noi donne. Perché la donna, caro signor Meis, lo sappia, è più generosa dell’uomo, e non bada come questo alla bellezza esteriore soltanto.

— Diciamo allora che la donna è anche più coraggiosa dell’uomo, signorina. Perché riconosco che, oltre alla generosità, ci vorrebbe una buona dose di coraggio per amar veramente un uomo come me.

— Ma vada via! Già lei prova gusto a dirsi e anche a farsi più brutto che non sia.

— Questo è vero. E sa perché? Per non ispirare compassione a nessuno. Se cercassi, veda, d’acconciarmi in qualche modo, farei dire: «Guarda un po’

quel pover’uomo: si lusinga d’apparir meno brutto con quel pajo di baffi!».

Invece, così, no. Sono brutto? E là: brutto bene, di cuore, senza misericordia. Che ne dice?

La signorina Caporale trasse un profondo sospiro.

— Dico che ha torto, — poi rispose. — Se provasse invece a farsi crescere un po’ la barba, per esempio, s’accorgerebbe subito di non essere quel mostro che lei dice.

— E quest’occhio qui? — le domandai.

— Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvoltura, — fece la Caporale,

— avrei voluto dirglielo da parecchi giorni: perché non s’assoggetta, scusi,

a una operazione ormai facilissima? Potrebbe, volendo, liberarsi in poco tempo anche di questo lieve difetto.

— Vede, signorina? — conclusi io. — Sarà che la donna è più generosa dell’uomo; ma le faccio notare che a poco a poco lei mi ha consigliato di combinarmi un’altra faccia.

Perché avevo tanto insistito su questo discorso? Volevo proprio che la maestra Caporale mi spiattellasse lì, in presenza d’Adriana, ch’ella mi avrebbe amato, anzi mi amava, anche così, tutto raso, e con quell’occhio sbalestrato? No. Avevo tanto parlato e avevo rivolto tutte quelle domande particolareggiate alla Caporale, perché m’ero accorto del piacere forse incosciente che provava Adriana alle risposte vittoriose che quella mi dava.

Compresi così, che, non ostante quel mio strambo aspetto, ella avrebbe potuto amarmi. Non lo dissi neanche a me stesso; ma, da quella sera in poi, mi sembrò più soffice il letto ch’io occupavo in quella casa, più gentili tutti gli oggetti che mi circondavano, più lieve l’aria che respiravo, più azzurro il cielo, più splendido il sole. Volli credere che questo mutamento dipendesse ancora perché Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stìa, e perché io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l’equilibrio, raggiunto l’ideale che m’ero prefisso, di far di me un altr’uomo, per vivere un’altra vita, che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me.

E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più tanto nojoso: l’ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s’accorgeva che pensava ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a’

suoi bei dì! Era più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a dar l’ allegria di quell’indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell’anima, si sentiva bella, lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se avesse trovato un uomo «generoso»! Forse non avrebbe più bevuto neppure un dito di vino.

«Se noi riconosciamo,» pensavo, «che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?»

E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale.

Me lo proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che, alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva. Non sapevo bene ciò che dicessi, ma sentivo che ogni parola, il suono, l’espressione di essa non spingeva mai tanto oltre il turbamento di colei a cui veramente era diretta, da rompere la segreta armonia, che già – non so come – s’era tra noi stabilita.

Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l’impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto.

E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d’ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l’angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.

Quante volte non ne feci l’esperienza con Adriana! Ma l’impaccio ch’ella provava era allora per me effetto del natural ritegno e della timidezza della sua indole, e il mio credevo derivasse dal rimorso che la finzione mi cagionava, la finzione del mio essere, continua, a cui ero obbligato, di fronte al candore e alla ingenuità di quella dolce e mite creatura.

La vedevo ormai con altri occhi. Ma non s’era ella veramente trasformata da un mese in qua? Non s’accendevano ora d’una più viva luce interiore i suoi sguardi fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come un’ostentazione?

Sì, forse anch’ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno di farsi l’illusione d’una nuova vita, senza voler sapere né quale né

come. Un desiderio vago, come un’aura dell’anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell’avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là.

Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera signorina Caporale.

— Oh sa, signorina, — diss’io a questa una sera, — che quasi quasi ho deciso di seguire il suo consiglio?

— Quale? — mi domandò ella.

— Di farmi operare da un oculista.

La Caporale batté le mani, tutta contenta.

— Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l’Ambrosini: è il più bravo: fece l’operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io?

Adriana sorrise, e sorrisi anch’io.

— Non lo specchio, signorina — dissi però. — S’è fatto sentire il bisogno.

Da un po’ di tempo a questa parte, l’occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo.

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