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Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un’operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito.

Pochi giorni dopo, una scena notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d’una delle mie finestre, venne a frastornarmi all’improvviso.

La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m’ero messo a leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione. Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l’orecchio per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente: sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa non c’eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m’appressai alla finestra per guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina Caporale. Ma chi era quell’uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano?

Da una parola proferita un po’ più forte dalla Caporale compresi che parlavano di me. M’accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l’orecchio. Quell’uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d’attenuar l’impressione che quelle notizie avevan prodotto nell’animo di colui.

— Ricco? — domandò egli, a un certo punto.

E la Caporale:

— Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla…

— Sempre per casa?

— Ma no! E poi domani lo vedrai…

Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano (non c’era più dubbio) era l’amante della signorina Caporale… E come mai, allora, in tutti quei giorni, s’era ella dimostrata così condiscendente con me?

La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai d’ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente.

— Ma come potevo io impedirlo? — disse quella, alzando un po’ la voce con intensa esasperazione. — Chi sono io? che rappresento io in questa casa?

— Chiamami Adriana! — le ordinò quegli allora, imperioso.

Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii frizzarmi il sangue per le vene.

— Dorme, — disse la Caporale.

E colui, fosco, minaccioso:

— Va’ a svegliarla! subito!

Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana.

Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: «Chi sono io?

che rappresento io in questa casa?».

Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell’uomo voleva ancora parlarne con Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo.

La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere ch’io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer coscienza di quello ben più vivo che un’altra mi destava in quel momento.

Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana.

La Caporale non era più nel terrazzino. L’altro, rimasto solo, s’era messo a guardare il fiume, appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa tra le mani.

In preda a un’ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò

affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto levarsi. Ma no: eccola!

Papiano le andò subito incontro.

— Lei vada a letto! — intimò alla signorina Caporale. — Mi lasci parlare con mia cognata.

Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da pranzo e il terrazzino.

— Nient’affatto! — disse Adriana, tendendo un braccio contro l’imposta.

— Ma io ho da parlarti! — inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di parlar basso.

— Parla così! Che vuoi dirmi? — riprese Adriana. — Avresti potuto aspettare fino a domani.

— No! ora! — ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé.

— Insomma! — gridò Adriana, svincolandosi fieramente.

Non mi potei più reggere: aprii la persiana.

— Oh! signor Meis! — chiamò ella subito. — Vuol venire un po’ qua, se non le dispiace?

— Eccomi, signorina! — m’affrettai a rispondere.

Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d’un salto, fui nel corridojo: ma lì, presso l’uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che apriva a malapena un pajo d’occhi azzurri, languidi, attoniti: m’arrestai

un momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi al terrazzino.

— Le presento, signor Meis, — disse Adriana, — mio cognato Terenzio Papiano, arrivato or ora da Napoli.

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