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Chi sa quanto mi ci sarei divertito, se non avessi avuto quella maledetta coda di paglia!

Certo egli se ne accorse fin dai primi giorni, o – per lo meno – me la intravide. Cominciò un assedio fitto fitto di cerimonie, ch’eran tutte uncini per tirarmi a parlare. Mi pareva che ogni sua parola, ogni sua domanda, fosse pur la più ovvia, nascondesse un’insidia. Non avrei voluto intanto mostrar diffidenza per non accrescere i suoi sospetti; ma l’irritazione ch’egli mi cagionava con quel suo tratto da vessatore servizievole m’impediva di dissimularla bene.

L’irritazione mi proveniva anche da altre due cause interne e segrete. Una era questa: ch’io, senza aver commesso cattive azioni, senz’aver fatto male a nessuno, dovevo guardarmi così, davanti e dietro, timoroso e sospettoso, come se avessi perduto il diritto d’esser lasciato in pace. L’altra, non avrei voluto confessarla a me stesso, e appunto perciò m’irritava più fortemente, sotto sotto. Avevo un bel dirmi:

«Stupido! vattene via, levati dai piedi codesto seccatore!»

Non me ne andavo: non potevo più andarmene.

La lotta che facevo contro me stesso, per non assumer coscienza di ciò che sentivo per Adriana, m’impediva intanto di riflettere alle conseguenze della mia anormalissima condizione d’esistenza rispetto a questo sentimento. E

restavo lì, perplesso, smanioso nella mal contentezza di me, anzi in orgasmo continuo, eppur sorridente di fuori.

Di ciò che m’era occorso di scoprire quella sera, nascosto dietro la persiana, non ero ancor venuto in chiaro. Pareva che la cattiva impressione che Papiano aveva ricevuto di me alle notizie della signorina Caporale, si fosse cancellata subito alla presentazione. Egli mi tormentava, è vero, ma come se non potesse farne a meno; non certo col disegno segreto di farmi andar via; anzi, al contrario! Che macchinava? Adriana, dopo il ritorno di lui, era diventata triste e schiva, come nei primi giorni. La signorina Silvia Caporale dava del lei a Papiano, almeno in presenza degli altri, ma

quell’arcifanfano dava del tu a lei, apertamente; arrivava finanche a chiamarla Rea Silvia; e io non sapevo come interpretare queste sue maniere confidenziali e burlesche. Certo quella disgraziata non meritava molto rispetto per il disordine della sua vita, ma neanche d’esser trattata a quel modo da un uomo che non aveva con lei né parentela né affinità.

Una sera (c’era la luna piena, e pareva giorno), dalla mia finestra la vidi, sola e triste, là, nel terrazzino, dove ora ci riunivamo raramente, e non più col piacere di prima, poiché v’interveniva anche Papiano che parlava per tutti. Spinto dalla curiosità, pensai d’andarla a sorprendere in quel momento d’abbandono.

Trovai, al solito, nel corridojo, presso all’uscio della mia camera, asserpolato sul baule, il fratello di Papiano, nello stesso atteggiamento in cui lo avevo veduto la prima volta. Aveva eletto domicilio lassù, o faceva la sentinella a me per ordine del fratello?

La signorina Caporale, nel terrazzino, piangeva. Non volle dirmi nulla, dapprima; si lamentò soltanto d’un fierissimo mal di capo. Poi, come prendendo una risoluzione improvvisa, si voltò a guardarmi in faccia, mi porse una mano e mi domandò:

— È mio amico lei?

— Se vuol concedermi quest’onore… – le risposi, inchinandomi.

— Grazie. Non mi faccia complimenti, per carità! Se sapesse che bisogno ho io d’un amico, d’un vero amico, in questo momento! Lei dovrebbe comprenderlo, lei che è solo al mondo, come me… Ma lei è uomo! Se sapesse… se sapesse…

Addentò il fazzolettino che teneva in mano, per impedirsi di piangere; non riuscendovi, lo strappò a più riprese, rabbiosamente.

— Donna, brutta e vecchia, — esclamò: — tre disgrazie, a cui non c’è rimedio! Perché vivo io?

— Si calmi, via, — la pregai, addolorato. — Perché dice così, signorina?

Non mi riuscì dir altro.

— Perché… — proruppe lei, ma s’arrestò d’un tratto.

— Dica, — la incitai. — Se ha bisogno d’un amico…

Ella si portò agli occhi il fazzolettino lacerato, e…

— Io avrei piuttosto bisogno di morire! — gemette con accoramento così profondo e intenso, che mi sentii subito un nodo d’angoscia alla gola.

Non dimenticherò mai più la piega dolorosa di quella bocca appassita e sgraziata nel proferire quelle parole, né il fremito del mento su cui si torcevano alcuni peluzzi neri.

— Ma neanche la morte mi vuole, — riprese. — Niente… scusi, signor Meis! Che ajuto potrebbe darmi lei? Nessuno. Tutt’al più, di parole… sì, un po’ di compassione. Sono orfana, e debbo star qua, trattata come… forse lei se ne sarà accorto. E non ne avrebbero il diritto, sa! Perché non mi fanno mica l’elemosina…

E qui la signorina Caporale mi parlò delle sei mila lire scroccatele da Papiano, a cui io ho già accennato altrove.

Per quanto il cordoglio di quell’infelice m’interessasse, non era certo quello che volevo saper da lei. Approfittandomi (lo confesso) dell’eccitazione in cui ella si trovava, fors’anche per aver bevuto qualche bicchierino di più, m’arrischiai a domandarle:

— Ma, scusi, signorina, perché lei glielo ha dato, quel danaro?

— Perché? — e strinse le pugna. — Due perfidie, una più nera dell’altra!

Gliel’ho dato per dimostrargli che avevo ben compreso che cosa egli volesse da me. Ha capito? Con la moglie ancora in vita, costui…

— Ho capito.

— Si figuri, — riprese con foga. — La povera Rita…

— La moglie?

— Sì Rita, la sorella d’Adriana… Due anni malata, tra la vita e la morte…

Si figuri, se io… Ma già, qua lo sanno, com’io mi comportai; lo sa Adriana, e perciò mi vuol bene; lei sì, poverina. Ma come son rimasta io ora? Guardi: per lui, ho dovuto anche dar via il pianoforte, ch’era per me… tutto, capirà!

non per la mia professione soltanto: io parlavo col mio pianoforte! Da ragazza, all’Accademia, componevo; ho composto anche dopo, diplomata; poi ho lasciato andare. Ma quando avevo il pianoforte, io componevo ancora, per me sola, all’improvviso; mi sfogavo… m’inebriavo fino a cader per terra, creda, svenuta, in certi momenti. Non so io stessa che cosa m’uscisse dall’anima: diventavo una cosa sola col mio strumento, e le mie dita non vibravano più su una tastiera: io facevo piangere e gridare l’anima mia. Posso dirle questo soltanto, che una sera (stavamo, io e la mamma, in un mezzanino) si raccolse gente, giù in istrada, che m’applaudì alla fine, a lungo. E io ne ebbi quasi paura.

— Scusi, signorina, — le proposi allora, per confortarla in qualche modo.

— E non si potrebbe prendere a nolo un pianoforte? Mi piacerebbe tanto, tanto, sentirla sonare; e se lei…

— No, — m’interruppe, — che vuole che suoni io più! È finita per me.

Strimpello canzoncine sguajate. Basta. È finita…

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