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Questa sua delicata perplessità, questo riserbo onesto m’impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso e mi fecero impegnare sempre più nella sfida quasi sottintesa con Papiano.

M’aspettavo che questi mi si piantasse di fronte fin dal primo giorno, smettendo i soliti complimenti e le solite cerimonie. Invece, no. Tolse il fratello dal posto di guardia, lì sul baule, come io volevo, e arrivò finanche a celiar su l’aria impacciata e smarrita d’Adriana in mia presenza.

— La compatisca, signor Meis: è vergognosa come una monacella la mia cognatina!

Questa inattesa remissione, tanta disinvoltura m’impensierirono. Dove voleva andar a parare?

Una sera me lo vidi arrivare in casa insieme con un tale che entrò battendo forte il bastone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il bastone, ch’egli camminava.

Dôva ca l’è stô me car parent? — si mise a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle tese rialzate, calcato

fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, né la pipetta dalla bocca, con cui pareva stesse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina Caporale. — Dôva ca l’è stô me car parent?

— Eccolo, — disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a me: — Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo parente.

— Mio parente? — esclamai, trasecolando.

Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi.

Lo lasciai lì, in quell’atteggiamento, per contemplarlo un pezzo; poi:

— Che farsa è codesta? — domandai.

— No, scusi, perché? — fece Terenzio Papiano. — Il signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo…

Cusin, — appoggiò quegli, senza aprir gli occhi. — Tut i Meis i sôma parent.

— Ma io non ho il bene di conoscerla! — protestai.

Oh ma côsta ca l’è bela! — esclamò colui. — L’è propi për lon che mi’t sôn vnù a trôvè.

— Meis? di Torino? — domandai io, fingendo di cercar nella memoria. —

Ma io non son di Torino!

— Come! Scusi, — interloquì Papiano. — Non mi ha detto che fino a dieci anni lei stette a Torino?

— Ma sì! — riprese quegli allora, seccato che si mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. — Cusin, cusin! Questo signore qua… come si chiama?

— Terenzio Papiano, a servirla.

— Terenziano: a l’à dime che to pare a l’è andàit an America: cosa ch’a veul di’ lon? a veul di’ che ti t’ ses fieul 'd barba Antôni ca l’è andàit 'ntla America. E nui sôma cusin.

— Ma se mio padre si chiamava Paolo…

— Antôni!

— Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me?

Colui si strinse nelle spalle e stirò in sù la bocca:

A m’smiava Antôni, — disse stropicciandosi il mento ispido d’una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. — 'I veui nen côntradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perché mi’ i l’hai nen conôssulo.

Pover’uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perché a ogni costo volle esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio… cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand’egli era ancor masnà, di sette anni, e che – povero impiegato

– aveva vissuto sempre lontano dalla famiglia, un po’ qua, un po’ là.

Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d’esser mio cugino.

Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva conosciuto? Volli domandarglielo.

Ebbene, sì: lo aveva conosciuto, non ricordava con precisione se a Pavia o a Piacenza.

— Ah sì? proprio conosciuto? e com’era?

Era… non se ne ricordava lui, franc nen.

A sôn passà trant’ani

Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso della noja e della miseria. Chinava il capo, con gli occhi chiusi, approvando tutto ciò ch’io dicevo per pigliarmelo a godere; son sicuro che se gli avessi detto che

da bambini noi eravamo cresciuti insieme e che parecchie volte io gli avevo strappato i capelli, egli avrebbe approvato allo stesso modo. Non dovevo mettere in dubbio soltanto una cosa, che noi cioè fossimo cugini: su questo non poteva transigere: era ormai stabilito, ci s’era fissato, e dunque basta.

A un certo punto, però, guardando Papiano e vedendolo gongolante, mi passò la voglia di scherzare. Licenziai quel pover’uomo mezzo ubriaco, salutandolo: — Caro parente! — e domandai a Papiano, con gli occhi fissi negli occhi, per fargli intender bene che non ero pane pe’ suoi denti:

— Mi dica adesso dov’è andato a scovare quel bel tomo.

— Scusi tanto, signor Adriano! — premise quell’imbroglione, a cui non posso fare a meno di riconoscere una grande genialità. — Mi accorgo di non essere stato felice…

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