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— Ma perché sa in quali mani l’affida! — esclamò alteramente Papiano.

Non volli saper altro. Perché Adriana si ricusava d’assistere a quegli esperimenti? Pe’ suoi scrupoli religiosi. Ora, se la nipote del marchese Giglio avrebbe preso parte a quelle sedute, col consenso del nonno clericale, non avrebbe potuto anch’ella parteciparvi? Forte di questo argomento, io cercai di persuaderla, la vigilia della prima seduta.

Era entrata in camera mia col padre, il quale udita la mia proposta:

— Ma siamo sempre lì, signor Meis! — sospirò. — La religione, di fronte a questo problema, drizza orecchie d’asino e adombra, come la scienza.

Eppure i nostri esperimenti, l’ho già detto e spiegato tante volte a mia figlia, non sono affatto contrarii né all’una né all’altra. Anzi, per la religione segnatamente sono una prova delle verità che essa sostiene.

— E se io avessi paura? — obbiettò Adriana.

— Di che? — ribatté il padre. — Della prova?

— O del bujo? — aggiunsi io. — Siamo tutti qua, con lei, signorina! Vorrà mancare lei sola?

— Ma io… — rispose, impacciata, Adriana, — io non ci credo, ecco… non posso crederci, e… che so!

Non poté aggiunger altro. Dal tono della voce, dall’imbarazzo, io però compresi che non soltanto la religione vietava ad Adriana d’assistere a quegli esperimenti. La paura messa avanti da lei per iscusa poteva avere altre cause, che il signor Anselmo non sospettava. O le doleva forse d’assistere allo spettacolo miserevole del padre puerilmente ingannato da Papiano e dalla signorina Caporale?

Non ebbi animo d’insistere più oltre.

Ma ella, come se mi avesse letto in cuore il dispiacere che il suo rifiuto mi cagionava, si lasciò sfuggire nel bujo un: — Del resto… — ch’io colsi subito a volo:

— Ah brava! L’avremo dunque con noi?

— Per domani sera soltanto, — concesse ella, sorridendo.

Il giorno appresso, sul tardi, Papiano venne a preparare la camera: v’introdusse un tavolino rettangolare, d’abete, senza cassetto, senza vernice, dozzinale; sgombrò un angolo della stanza; vi appese a una funicella un lenzuolo; poi recò una chitarra, un collaretto da cane con molti sonaglioli, e altri oggetti. Questi preparativi furono fatti al lume del famoso lanternino dal vetro rosso. Preparando, non smise – s’intende! – un solo istante di parlare.

— Il lenzuolo serve, sa! serve… non saprei, da… da accumulatore, diciamo, di questa forza misteriosa: lei lo vedrà agitarsi, signor Meis, gonfiarsi come una vela, rischiararsi a volte d’un lume strano, quasi direi siderale. Sissignore! Non siamo ancora riusciti a ottenere

«materializzazioni», ma luci sì: ne vedrà, se la signorina Silvia questa sera si troverà in buone disposizioni. Comunica con lo spirito d’un suo antico compagno d’Accademia, morto, Dio ne scampi, di tisi, a diciott’anni. Era di… non so, di Basilea, mi pare: ma stabilito a Roma da un pezzo, con la famiglia. Un genio, sa, per la musica: reciso dalla morte crudele prima che avesse potuto dare i suoi frutti. Così almeno dice la signorina Caporale.

Anche prima che ella sapesse d’aver questa facoltà medianica, comunicava con lo spirito di Max. Sissignore: si chiamava così, Max… aspetti, Max Oliz, se non sbaglio. Sissignore! Invasata da questo spirito, improvvisava sul pianoforte, fino a cader per terra, svenuta, in certi momenti. Una sera si raccolse perfino gente, giù in istrada, che poi la applaudì…

— E la signorina Caporale ne ebbe quasi paura, — aggiunsi io, placidamente.

— Ah, lo sa? — fece Papiano, restando.

— Me l’ha detto lei stessa. Sicché dunque applaudirono la musica di Max sonata con le mani della signorina Caporale?

— Già, già! Peccato che non abbiamo in casa un pianoforte. Dobbiamo contentarci di qualche motivetto, di qualche spunto, accennato su la chitarra. Max s’arrabbia, sa! fino a strappar le corde, certe volte… Ma sentirà stasera. Mi pare che sia tutto in ordine, ormai.

— E dica un po’, signor Terenzio. Per curiosità, — volli domandargli, prima che andasse via, — lei ci crede? ci crede proprio?

— Ecco, — mi rispose subito, come se avesse preveduto la domanda. —

Per dire la verità, non riesco a vederci chiaro.

— Eh sfido!

— Ah, ma non perché gli esperimenti si facciano al bujo, badiamo! I fenomeni, le manifestazioni sono reali, non c’è che dire: innegabili. Noi non possiamo mica diffidare di noi stessi…

— E perché no? Anzi!

— Come? Non capisco!

— C’inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche cosa…

— Ma a me, no, sa: non piace! — protestò Papiano. — Mio suocero, che è molto addentro in questi studii, ci crede. Io, fra l’altro, veda, non ho neanche il tempo di pensarci… se pure ne avessi voglia. Ho tanto da fare, tanto, con quei maledetti Borboni del marchese che mi tengono lì a chiodo!

Perdo qui qualche serata. Dal canto mio, son d’avviso, che noi, finché per grazia di Dio siamo vivi, non potremo saper nulla della morte; e dunque, non le pare inutile pensarci? Ingegnamoci di vivere alla meglio, piuttosto, santo Dio! Ecco come io la penso, signor Meis. A rivederla, eh? Ora scappo a prendere in via dei Pontefici la signorina Pantogada.

Ritornò dopo circa mezz’ora, molto contrariato: insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l’italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l’esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell’atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.

— Adriano Mei, — diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi.

— Adriano Tui, — mi veniva quasi di rispondergli.

Entrarono le donne: Pepita, la governante, la signorina Caporale, Adriana.

— Anche tu? Che novità? — le disse Papiano con mal garbo.

Non se l’aspettava quest’altro tiro. Io intanto, dal modo con cui era stato accolto il Bernaldez, avevo capito che il marchese Giglio non doveva saper nulla dell’intervento di lui alla seduta, e che doveva esserci sotto qualche intrighetto con la Pepita.

Ma il gran Terenzio non rinunziò al suo disegno. Disponendo intorno al tavolino la catena medianica, si fece sedere accanto Adriana e pose accanto a me la Pantogada.

Non ero contento? No. E Pepita neppure. Parlando tal quale come il padre, ella si ribellò subito:

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