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— Ma lei è felicissimo, sempre! — esclamai io.

— No, intendo: di non averle fatto piacere. Ma creda pure che è stata una combinazione. Ecco qua: son dovuto andare questa mattina all’Agenzia delle imposte, per conto del marchese, mio principale. Mentr’ero là, ho sentito chiamar forte: « Signor Meis! Signor Meis! ». Mi volto subito, credendo che vi sia anche lei, per qualche affare, chi sa avesse, dico, bisogno di me, sempre pronto a servirla. Ma che! chiamavano questo bel tomo, come lei ha detto giustamente; e allora, così… per curiosità, mi avvicinai e gli domandai se si chiamasse proprio Meis e di che paese fosse, poiché io avevo l’onore e il piacere d’ospitare in casa un signor Meis…

Ecco com’è andata! Lui mi ha assicurato che lei doveva essere suo parente, ed è voluto venire a conoscerla…

— All’Agenzia dell’imposte?

— Sissignore, è impiegato là: ajuto-agente.

Dovevo crederci? Volli accertarmene. Ed era vero, sì; ma era vero del pari che Papiano, insospettito, mentre io volevo prenderlo di fronte, là, per contrastare nel presente a’ suoi segreti armeggii, mi sfuggiva, mi sfuggiva per ricercare invece nel mio passato e assaltarmi così quasi a le spalle.

Conoscendolo bene, avevo pur troppo ragione di temere che egli, con quel fiuto nel naso, fosse bracco da non andare a lungo a vento: guaj se fosse riuscito ad aver sentore della minima traccia: l’avrebbe certo seguitata fino al molino della Stìa.

Figurarsi dunque il mio spavento, quando, ivi a pochi giorni, mentre me ne stavo in camera a leggere, mi giunse dal corridojo, come dall’altro mondo, una voce, una voce ancor viva nella mia memoria.

— Agradecio Dio, ántes, che me la son levada de sobre!

Lo Spagnuolo? quel mio spagnoletto barbuto e atticciato di Montecarlo?

colui che voleva giocar con me e col quale m’ero bisticciato a Nizza?… Ah, perdio! Ecco la traccia! Era riuscito a scoprirla Papiano!

Balzai in piedi, reggendomi al tavolino per non cadere, nell’improvviso smarrimento angoscioso: stupefatto, quasi atterrito, tesi l’orecchio, con l’idea di fuggire non appena quei due – Papiano e lo Spagnuolo (era lui, non c’era dubbio: lo avevo veduto nella sua voce) – avessero attraversato il corridojo. Fuggire? E se Papiano, entrando, aveva domandato alla serva s’io fossi in casa? Che avrebbe pensato della mia fuga? Ma d’altra parte, se già sapeva ch’io non ero Adriano Meis? Piano! Che notizia poteva aver di me quello Spagnuolo? Mi aveva veduto a Montecarlo. Gli avevo io detto, allora, che mi chiamavo Mattia Pascal? Forse! Non ricordavo…

Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell’occhio maledetto! Forse per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare fin là, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo più d’ogni altro mi stupiva. Che fare intanto? Niente. Aspettar lì che ciò che doveva avvenire avvenisse.

Non avvenne nulla. E pur non di meno la paura non mi passò, neppure la sera di quello stesso giorno, allorché Papiano, spiegandomi il mistero per me insolubile e terribile di quella visita, mi dimostrò ch’egli non era affatto su la traccia del mio passato, e che solo il caso, di cui da un pezzo godevo i favori, aveva voluto farmene un altro, rimettendomi tra i piedi quello Spagnuolo, che forse non si ricordava più di me né punto né poco.

Secondo le notizie che Papiano mi diede di lui, io, andando a Montecarlo, non potevo non incontrarvelo, poich’egli era un giocatore di professione.

Strano era che lo incontrassi ora a Roma, o piuttosto, che io, venendo a Roma, mi fossi intoppato in una casa, ove anch’egli poteva entrare. Certo, s’io non avessi avuto da temere, questo caso non mi sarebbe parso tanto strano: quante volte infatti non ci avviene d’imbatterci inaspettatamente in qualcuno che abbiamo conosciuto altrove per combinazione? Del resto, egli aveva o credeva d’avere le sue buone ragioni per venire a Roma e in casa di Papiano. Il torto era mio, o del caso che mi aveva fatto radere la barba e cangiare il nome.

Circa vent’anni addietro, il marchese Giglio d’Auletta, di cui Papiano era il segretario, aveva sposato l’unica sua figliuola a don Antonio Pantogada, addetto all’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Poco dopo il matrimonio, il Pantogada, scoperto una notte dalla polizia in una bisca insieme con altri dell’aristocrazia romana, era stato richiamato a Madrid. Là aveva fatto il resto, e forse qualcos’altro di peggio, per cui era stato costretto a lasciar la diplomazia. D’allora in poi, il marchese d’Auletta non aveva avuto più pace, forzato continuamente a mandar danaro per pagare i debiti di giuoco del genero incorreggibile. Quattr’anni fa, la moglie del Pantogada era morta, lasciando una giovinetta di circa sedici anni, che il marchese aveva voluto prendere con sé, conoscendo pur troppo in quali mani altrimenti sarebbe rimasta. Il Pantogada non avrebbe voluto lasciarsela scappare; ma poi, costretto da una impellente necessità di denaro, aveva ceduto. Ora egli minacciava senza requie il suocero di riprendersi la figlia, e quel giorno appunto era venuto a Roma con questo intento, per scroccare cioè altro danaro al povero marchese, sapendo bene che questi non avrebbe mai e poi mai abbandonato nelle mani di lui la sua cara nipote Pepita.

Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera generosa. E mentre egli parlava, io non potevo fare a meno di ammirare il privilegiato congegno della sua coscienza che, pur potendo indignarsi così, realmente, delle altrui nequizie, gli permetteva poi di farne delle simili o quasi, tranquillissimamente, a danno di quel buon uomo del Paleari, suo suocero.

Intanto il marchese Giglio quella volta voleva tener duro. Ne seguiva che il Pantogada sarebbe rimasto a Roma parecchio tempo e sarebbe certo venuto a trovare in casa Terenzio Papiano, col quale doveva intendersi a meraviglia. Un incontro dunque fra me e quello Spagnuolo sarebbe stato forse inevitabile, da un giorno all’altro. Che fare?

Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l’immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell’occhio che solamente m’era rimasto di lui, mi parlò così:

«In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l’ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l’occhio a posto. Poi… vedrai!»

XIII: Il lanternino

Quaranta giorni al bujo.

Riuscita, oh, riuscita benissimo l’operazione. Solo che l’occhio mi sarebbe forse rimasto un pochino pochino più grosso dell’altro. Pazienza! E intanto, sì, al bujo quaranta giorni, in camera mia.

Potei sperimentare che l’uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch’egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa.

Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d’esser confortato in qualche modo crebbe fino all’esasperazione. Sapevo, sì, di trovarmi in una casa estranea; e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei ospiti delle cure delicatissime che avevano per me. Ma non mi bastavano più, quelle cure; m’irritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto.

Sicuro! Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo di esse, ch’ella era col pensiero quasi tutto il giorno lì con me, in camera mia; e grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d’intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela almeno vicina.

E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch’egli doveva andar via così presto?

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario.

— Immaginario? Questo? — gli gridai.

— Abbia pazienza; mi spiego.

E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia.

Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi:

— Dorme, signor Meis?

E io ero tentato di rispondergli:

— Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.

Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.

E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.

E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o

non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?

Are sens

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