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— Questo terrazzino qui accanto, — volle dirmi la ragazzetta in veste da camera, — appartiene pure a noi, almeno per ora. Lo butteranno giù, dicono, perché fa aggetto.

— Fa… che cosa?

— Aggetto: non si dice così? Ma ci vorrà tempo prima che sia finito il Lungotevere.

Sentendola parlare piano, con tanta serietà, vestita a quel modo, sorrisi e dissi:

— Ah sì?

Se ne offese. Chinò gli occhi e si strinse un po’ il labbro tra i denti. Per farle piacere, allora, le parlai anch’io con gravità:

— E scusi, signorina: non ci sono bambini, è vero, in casa?

Scosse il capo senza aprir bocca. Forse nella mia domanda sentì ancora un sapor d’ironia, ch’io però non avevo voluto metterci. Avevo detto bambini e non bambine. Mi affrettai a riparare un’altra volta.

— E… dica, signorina: loro non affittano altre camere, è vero?

— Questa è la migliore, — mi rispose, senza guardarmi. — Se non le accomoda…

— No no… Domandavo per sapere se…

— Ne affittiamo un’altra, — disse allora ella, alzando gli occhi con aria d’indifferenza forzata. — Di là, posta sul davanti… su la via. È occupata da una signorina che sta con noi ormai da due anni: dà lezioni di pianoforte…

non in casa.

Accennò, così dicendo, un sorriso lieve lieve, e mesto. Aggiunse:

— Siamo io, il babbo e mio cognato…

— Paleari?

— No: Paleari è il babbo; mio cognato si chiama Terenzio Papiano. Deve però andar via, col fratello che per ora sta anche lui qua con noi. Mia sorella

è morta… da sei mesi.

Per cangiar discorso, le domandai che pigione avrei dovuto pagare; ci accordammo subito; le domandai anche se bisognava lasciare una caparra.

— Faccia lei, — mi rispose. — Se vuole piuttosto lasciare il nome…

Mi tastai in petto, sorridendo nervosamente, e dissi:

— Non ho… non ho neppure un biglietto da visita… Mi chiamo Adriano, sì, appunto: ho sentito che si chiama Adriana anche lei, signorina. Forse le farà dispiacere…

— Ma no! Perché? — fece lei, notando evidentemente il mio curioso imbarazzo e ridendo questa volta come una vera bambina.

Risi anch’io e soggiunsi:

— E allora, se non le dispiace, mi chiamo Adriano Meis: ecco fatto! Potrei alloggiare qua stasera stessa? O tornerò meglio domattina…

Ella mi rispose: — Come vuole, — ma io me ne andai con l’impressione che le avrei fatto un gran piacere se non fossi più tornato. Avevo osato nientemeno di non tenere nella debita considerazione quella sua veste da camera.

Potei vedere però e toccar con mano, pochi giorni dopo, che la povera fanciulla doveva proprio portarla, quella veste da camera, di cui ben volentieri, forse, avrebbe fatto a meno. Tutto il peso della casa era su le sue spalle, e guaj se non ci fosse stata lei!

Il padre, Anselmo Paleari, quel vecchio che mi era venuto innanzi con un turbante di spuma in capo, aveva pure così, come di spuma, il cervello. Lo stesso giorno che entrai in casa sua, mi si presentò, non tanto – disse – per rifarmi le scuse del modo poco decente in cui mi era apparso la prima volta, quanto per il piacere di far la mia conoscenza, avendo io l’aspetto d’uno studioso o d’un artista, forse:

— Sbaglio?

— Sbaglia. Artista… per niente! studioso… così così… Mi piace leggere qualche libro.

— Oh, ne ha di buoni! — fece lui, guardando i dorsi di quei pochi che avevo già disposti sul palchetto della scrivania. — Poi, qualche altro giorno, le mostrerò i miei, eh? Ne ho di buoni anch’io. Mah!

E scrollò le spalle e rimase lì, astratto, con gli occhi invagati, evidentemente senza ricordarsi più di nulla, né dov’era né con chi era; ripeté altre due volte: — Mah!… Mah! , — con gli angoli della bocca contratti in giù, e mi voltò le spalle per andarsene, senza salutarmi.

Ne provai, lì per lì, una certa meraviglia; ma poi, quando egli nella sua camera mi mostrò i libri, come aveva promesso, non solo quella piccola distrazione di mente mi spiegai, ma anche tant’altre cose. Quei libri recavano titoli di questo genere: La Mort et l’au-delàL’homme et ses corpsLes sept principes de l’hommeKarmaLa clef de la Théosophie

A B C de la ThéosophieLa doctrine secrèteLe Plan Astral – ecc., ecc.

Era ascritto alla scuola teosofica il signor Anselmo Paleari.

Lo avevano messo a riposo, da caposezione in non so qual Ministero, prima del tempo, e lo avevano rovinato, non solo finanziariamente, ma anche perché, libero e padrone del suo tempo, egli si era adesso sprofondato tutto ne’ suoi fantastici studii e nelle sue nuvolose meditazioni, astraendosi più che mai dalla vita materiale. Per lo meno mezza la sua pensione doveva andarsene nell’acquisto di quei libri. Già se n’era fatta una piccola biblioteca. La dottrina teosofica però non doveva soddisfarlo interamente.

Certo il tarlo della critica lo rodeva, perché, accanto a quei libri di teosofia, aveva anche una ricca collezione di saggi e di studii filosofici antichi e moderni e libri d’indagine scientifica. In questi ultimi tempi si era dato anche a gli esperimenti spiritici.

Aveva scoperto nella signorina Silvia Caporale, maestra di pianoforte, sua inquilina, straordinarie facoltà medianiche, non ancora bene sviluppate, per dire la verità, ma che si sarebbero senza dubbio sviluppate, col tempo e con l’esercizio, fino a rivelarsi superiori a quelle di tutti i medium più celebrati.

Io, per conto mio, posso attestare di non aver mai veduto in una faccia volgarmente brutta, da maschera carnevalesca, un pajo d’occhi più dolenti di quelli della signorina Silvia Caporale. Eran nerissimi, intensi, ovati, e davan l’impressione che dovessero aver dietro un contrappeso di piombo, come quelli delle bambole automatiche. La signorina Silvia Caporale aveva più di quarant’anni e anche un bel pajo di baffi, sotto il naso a pallottola sempre acceso.

Seppi di poi che questa povera donna era arrabbiata d’amore, e beveva; si sapeva brutta, ormai vecchia e, per disperazione, beveva. Certe sere si riduceva in casa in uno stato veramente deplorevole: col cappellino a sghimbescio, la pallottola del naso rossa come una carota e gli occhi semichiusi, più dolenti che mai.

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