Di quel matrimonio il rione si ricordò a lungo. I suoi preparativi s’intrecciarono alla lenta, elaborata, rissosa nascita delle scarpe Cerullo e sembrarono due imprese che, per un motivo o per l’altro, non sarebbero mai arrivate a termine.
Il matrimonio, tra l’altro, incideva non poco sulla calzoleria. Fernando e Rino sgobbavano molto non solo sulle scarpe nuove, che per ora non rendevano nulla, ma anche su mille altri lavoretti immediatamente redditizi dei cui introiti avevano urgenza. Dovevano mettere insieme abbastanza soldi per assicurare a Lila un po’ di corredo e fronteggiare la spesa del rinfresco, che s’erano voluti a tutti i costi assumere per non fare la figura dei pezzenti.
Di conseguenza la tensione in casa Cerullo fu per mesi altissima: Nunzia ricamava lenzuola notte e giorno e Fernando faceva continue scenate rimpiangendo l’epoca felice in cui, nel suo bugigattolo del quale era il re, incollava, cuciva, martellava tranquillo con le puntine tra le labbra.
Gli unici sereni sembravano i due fidanzati. Ci furono solo due piccoli momenti di attrito tra loro. Il primo riguardò la loro futura casa. Stefano voleva comprare un appartamentino nel rione nuovo, Lila invece avrebbe preferito prendere un appartamento nelle vecchie palazzine. Discussero. La casa nel rione vecchio era più grande ma buia e non aveva vista, come del resto tutte le case di quell’area. L’appartamento nel rione nuovo era più piccolo ma aveva un’enorme vasca da bagno come quella della pubblicità Palmolive, il bidet e l’affacciata sul Vesuvio. Risultò inutile far notare che, mentre il Vesuvio era un profilo labile e distante che sbiadiva nel cielo nebuloso, a meno di duecento metri correvano nitidi i binari della ferrovia.
Stefano era sedotto dal nuovo, dagli appartamenti coi pavimenti splendenti, dalle pareti bianchissime, e Lila presto cedette. Più di ogni altra cosa contava che a meno di diciassette anni sarebbe stata la padrona di una casa sua, con l’acqua calda che usciva dai rubinetti, e non in affitto ma di proprietà.
Il secondo motivo di attrito fu il viaggio di nozze. Stefano propose come meta Venezia, e Lila, rivelando una linea di tendenza che poi avrebbe segnato
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tutta la sua vita, insistette per non allontanarsi molto da Napoli. Suggerì una permanenza a Ischia, a Capri e casomai sulla costiera amalfitana, tutti luoghi dove non era mai stata. Il futuro marito si disse quasi subito d’accordo.
Per il resto ci furono tensioni minime, più che altro riverberi di problemi interni alle famiglie di provenienza. Per esempio, se Stefano andava nella calzoleria Cerullo, finiva sempre, quando poi vedeva Lila, per farsi sfuggire parole pesanti su Fernando e Rino e lei si dispiaceva, scattava in loro difesa.
Lui scuoteva la testa poco convinto, cominciava a vedere nella storia delle scarpe un investimento eccessivo di denaro e alla fine dell’estate, quando ci furono tensioni forti tra lui e i due Cerullo, pose un limite preciso al fare e disfare di padre, figlio, aiutanti. Disse che entro novembre voleva i primi risultati: almeno i modelli invernali, per uomo e per donna, pronti per essere esposti in vetrina sotto Natale. Poi, piuttosto nervoso, si lasciò sfuggire con Lila che Rino era più pronto a chiedere soldi, che a lavorare. Lei difese il fratello, lui replicò, lei s’inalberò, lui fece immediatamente marcia indietro.
Andò a prendere il paio di scarpe da cui era nato tutto quel progetto, scarpe acquistate e mai usate, tenute come una testimonianza preziosissima della loro storia, e le tastò, le annusò, si commosse parlando di come ci sentiva, ci vedeva, ci aveva sempre visto le sue manine di quasi bambina che avevano lavorato insieme alle manacce del fratello. Erano sul terrazzo della vecchia casa, quella dove avevano sparato i fuochi in gara coi Solara. Le prese le dita e gliele baciò a una a una dicendo che non avrebbe mai più permesso che ricominciassero a rovinarsi.
Lila stessa mi raccontò quell’atto d’amore, molto allegra. Lo fece la volta che mi portò a vedere la casa nuova. Che splendore: pavimenti a riggiòle lucidissime, la vasca per farsi il bagno con la schiuma, i mobili intagliati della camera da pranzo e della camera da letto, la ghiacciaia e persino il telefono.
Mi segnai il numero, emozionata. Eravamo nate e vissute in case piccole, senza una stanza nostra, senza un posto dove studiare. Io vivevo ancora così, lei presto no. Uscimmo sul balcone che dava sulla ferrovia e sul Vesuvio, le chiesi cautamente: «Tu e Stefano venite qui anche da soli?».
«Qualche volta sì».
«E che succede?».
Mi guardò come se non capisse.
«In che senso?».
Mi imbarazzai.
«Vi baciate?».
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«Qualche volta».
«E poi?».
«Poi basta, non siamo ancora sposati».
Mi confusi. Possibile? Tanta libertà e niente? Tante chiacchiere in tutto il rione, le oscenità dei Solara, e loro solo qualche bacio?
«Ma lui non ti chiede?».
«Perché, a te Antonio ti chiede?».
«Sì».
«A me lui no. È d’accordo che ci dobbiamo prima sposare».
Però mi sembrò molto colpita dalle mie domande, tanto quanto io fui molto colpita dalle sue risposte. Lei dunque non concedeva nulla a Stefano, anche se uscivano in macchina da soli, anche se stavano per sposarsi, anche se avevano già una loro casa arredata, il letto coi materassi ancora imballati. E
io invece, che non mi dovevo certo sposare, ero andata da tempo oltre il bacio. Quando mi domandò, genuinamente incuriosita, se davo ad Antonio le cose che lui mi chiedeva, mi vergognai di dirle la verità. Risposi di no e lei sembrò contenta.
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52.
Rallentai gli appuntamenti agli stagni, anche perché stava per ricominciarmi la scuola. Ero convinta che Lila, proprio per via delle lezioni, dei compiti, mi avrebbe tenuta fuori dai preparativi del matrimonio, aveva fatto l’abitudine alle mie sparizioni durante l’anno scolastico. Ma non fu così. Le tensioni con Pinuccia erano molto cresciute durante l’estate. Non si trattava più di vestiti o di cappelli o di foulard o di gioiellini. Pinuccia disse a un certo punto al fratello, in presenza di Lila e in maniera chiara, che o la sua promessa sposa veniva a lavorare in salumeria, se non subito almeno dopo il viaggio di nozze
– lavorare come faceva da sempre tutta la famiglia, come faceva anche Alfonso ogni volta che la scuola glielo permetteva – o non avrebbe lavorato più nemmeno lei. E la madre questa volta la sostenne in modo esplicito.
Lila non batté ciglio, disse che avrebbe cominciato anche subito, anche domani stesso, in qualsiasi ruolo la famiglia Carracci la volesse. Quella risposta, come tutte le risposte di Lila da sempre, pur cercando di essere conciliante, si trascinò dentro qualcosa di intemerato, di sprezzante, che fece inalberare ancora di più Pinuccia. Diventò chiarissimo che la figlia dello scarparo era sentita ormai dalle due donne come una strega venuta a fare la padrona, a buttar soldi dalla finestra senza muovere un dito per guadagnarli, a metter sotto il maschio di casa con le sue arti, facendogli fare cose molto ingiuste contro il sangue suo, vale a dire contro la sorella carnale e persino contro la sua stessa madre.
Stefano, secondo il suo solito, nell’immediato non replicò. Aspettò che la sorella si fosse sfogata, poi, come se il problema di Lila e della sua collocazione nella piccola azienda familiare non fosse mai stato sollevato, disse pacatamente che Pinuccia, piuttosto che lavorare nella salumeria, avrebbe fatto bene ad aiutare la fidanzata nella preparazione dello sposalizio.
«Non hai più bisogno di me?» scattò la ragazza.
«No: da domani faccio venire al posto tuo Ada, la figlia di Melina».
«Te l’ha suggerito lei?» gridò la sorella indicando Lila.
«Non sono fatti tuoi».