Dovetti insistere. Le dissi, pur sapendo che non era vero, che se non le piaceva, se addirittura si fosse rifiutata di leggerlo, non l’avrei dato a Nino per stamparlo.
Alla fine lesse. Mi sembrò che si contraesse tutta, come se le avessi scaraventato addosso un peso. Ed ebbi l’impressione che stesse facendo uno sforzo doloroso per liberare da qualche fondo di sé la vecchia Lila, quella che leggeva, scriveva, disegnava, progettava con l’immediatezza, la naturalezza di una reazione istintiva. Quando ci riuscì tutto sembrò piacevolmente leggero.
«Posso cancellare?».
«Sì».
Cancellò molte parole e una frase intera.
«Posso spostare una cosa?».
«Sì».
Mi cerchiò un periodo e lo spostò con una linea ondulata in cima al foglio.
«Ti posso ricopiare tutto su un altro foglio?».
«Faccio io».
«No, fammelo fare a me».
Ci mise un po’ a ricopiare. Quando mi restituì il quaderno, disse:
«Sei assai brava, per forza che ti mettono sempre dieci».
Sentii che non c’era ironia, che era un complimento vero. Poi aggiunse con improvvisa durezza:
«Non voglio leggere più niente di quello che scrivi».
«Perché?».
Ci pensò.
«Perché mi fa male» e si colpì il centro della testa con le dita scoppiando a ridere.
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54.
Tornai a casa felice. Mi chiusi nel cesso per non disturbare il resto della famiglia e studiai fin verso le tre di notte, quando finalmente andai a dormire.
Mi tirai su alle sei e mezza per ricopiare il testo. Prima però lo lessi nella bella grafia tonda di Lila, una grafia rimasta ferma alla scuola elementare, molto diversa ormai dalla mia, che si era rimpicciolita e semplificata. Nella pagina c’era esattamente ciò che avevo scritto, ma più limpido, più immediato. Le cancellature, gli spostamenti, le piccole aggiunte e, in qualche modo, la sua stessa grafia mi diedero l’impressione che io fossi scappata da me e che ora corressi cento passi più avanti con un’energia e insieme un’armonia che la persona rimasta indietro non sapeva di avere.
Decisi di lasciare il testo nella grafia di Lila. Lo portai a Nino a quel modo per trattenere la traccia visibile della presenza di lei dentro le mie parole. Lui lo lesse battendo più volte le lunghe ciglia. Alla fine disse, con un’improvvisa inattesa tristezza:
«La Galiani ha ragione».
«In cosa?».
«Sai scrivere meglio di me».
E sebbene io protestassi imbarazzata, ripeté quella frase un’altra volta, poi mi girò le spalle senza salutarmi e se ne andò. Non mi disse nemmeno quando sarebbe uscita la rivista o come avrei potuto procurarmela, né io ebbi il coraggio di chiederglielo. Fu un comportamento che m’infastidì. Tanto più che mentre si allontanava riconobbi per pochi secondi l’andatura di suo padre.
Finì a questo modo quel nostro nuovo incontro. Sbagliammo tutto ancora una volta. Nino per giorni continuò a comportarsi come se scrivere meglio di lui fosse una colpa che andava espiata. Io mi indispettii. Quando di colpo mi riassegnò corpo, vita, presenza, e mi chiese di fare un tratto di strada insieme, gli risposi fredda che ero già impegnata, doveva venire a prendermi il mio fidanzato.
Per un po’ dovette credere che il fidanzato fosse Alfonso, ma il dubbio gli
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passò quando una volta, all’uscita, si affacciò sua sorella Marisa, che aveva da dirgli non so cosa. Non ci vedevamo dai tempi di Ischia. Mi corse incontro, mi festeggiò moltissimo, mi disse quanto si era dispiaciuta perché non ero tornata a Barano quell’estate. Poiché mi trovavo in compagnia di Alfonso glielo presentai. Lei insistette, visto che il fratello se n’era già andato, per fare quattro passi insieme a noi. Prima ci raccontò tutte le sue sofferenze d’amore. Poi, quando si rese conto che io e Alfonso non eravamo fidanzati, cessò di rivolgermi la parola e si mise a chiacchierare con lui al suo modo accattivante. Al ritorno a casa, di sicuro raccontò al fratello che tra me e Alfonso non c’era niente, perché lui il giorno dopo, prontamente, tornò a girarmi intorno. Ma ora il solo vederlo mi innervosiva. Era fatuo come suo padre, anche se lo detestava? Credeva che gli altri non potessero fare a meno di volerlo, di amarlo? Era così pieno di sé da non tollerare altre virtù che le proprie?
Chiesi ad Antonio di venirmi a prendere a scuola. Mi obbedì subito, disorientato e insieme gratificato da quella richiesta. Ciò che dovette stupirlo di più fu che lì in pubblico, davanti a tutti, gli presi la mano e intrecciai le mie dita alle sue. Mi ero sempre rifiutata di passeggiare a quel modo, sia nel rione che fuori, perché mi sembrava di essere ancora bambina e di andare a passeggio con mio padre. Quella volta lo feci. Sapevo che Nino ci guardava e volevo che capisse chi ero. Scrivevo meglio di lui, avrei pubblicato sulla rivista su cui pubblicava lui, ero brava a scuola quanto e più di lui, avevo un uomo, eccolo: e perciò non sarei mai corsa dietro a lui come una bestiola fedele.
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55.
Ad Antonio chiesi anche di accompagnarmi al matrimonio di Lila, di non lasciarmi mai sola, di parlare e casomai ballare sempre con me. Temevo molto quella giornata, la sentivo come uno strappo definitivo, e volevo accanto qualcuno che mi sostenesse.
Questa richiesta gli dovette complicare ulteriormente la vita. Lila aveva mandato le partecipazioni a tutti. Nelle case del rione le mamme, le nonne lavoravano ormai da tempo per cucire vestiti, procurarsi cappellini e borsette, andare in giro per trovare il regalo di nozze, che so, un servizio di bicchieri, di piatti, di posate. Non era tanto per Lila che facevano quello sforzo; era per Stefano, che era molto perbene, ti permetteva di pagare a fine mese. Ma soprattutto, un matrimonio era una circostanza in cui nessuno poteva sfigurare, specialmente le ragazze senza fidanzato, che in quell’occasione avevano la possibilità di trovarlo e sistemarsi, sposandosi a loro volta nel giro di qualche anno.
Proprio per quell’ultima ragione volli che Antonio mi accompagnasse. Non avevo nessuna intenzione di ufficializzare la cosa – stavamo attenti a tenere assolutamente nascosto il nostro rapporto –, ma tendevo a mettere sotto controllo l’ansia di essere attraente. Volevo, in quell’occasione, sentirmi composta, tranquilla, con i miei occhiali, il mio vestito povero cucito da mia madre, le scarpe vecchie, e intanto pensare: ho tutto quello che deve avere una ragazza di sedici anni, non mi serve niente e nessuno.
Ma Antonio non la prese a quel modo. Mi amava, mi considerava la più grande fortuna che gli fosse mai capitata. Si chiedeva spesso ad alta voce, con un filo d’angoscia teso sotto un’apparenza divertita, come mai avessi scelto proprio lui che era stupido e non sapeva mettere due parole l’una dietro l’altra. In realtà non vedeva l’ora di presentarsi a casa dei miei genitori per ufficializzare il nostro rapporto. Di conseguenza, a quella mia richiesta dovette pensare che finalmente mi stavo decidendo a farlo uscire dalla clandestinità e si indebitò per farsi fare un vestito dal sarto, senza contare quel che già gli costavano il regalo di nozze, l’abbigliamento di Ada e degli
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