La lavai con gesti lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda, calma. Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei, baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la sporcasse nel corso della notte. La immaginai, nuda com’era in quel momento, avvinta al marito, nel letto della nuova casa, mentre il treno sferragliava sotto le loro finestre e la carne violenta di lui le entrava dentro con un colpo netto, come il tappo di sughero spinto dal palmo dentro il collo di un fiasco di vino. E mi sembrò all’improvviso che l’unico rimedio contro il dolore che stavo provando, che avrei provato, era trovare un angolo abbastanza appartato perché Antonio facesse a me, nelle stesse ore, la stessa identica cosa.
L’aiutai ad asciugarsi, a vestirsi, a indossare l’abito da sposa che io – io, pensai con un misto di fierezza e sofferenza – avevo scelto per lei. La stoffa diventò viva, sul suo candore corse il calore di Lila, il rosso della bocca, gli occhi scurissimi e duri. Alla fine si infilò le scarpe da lei stessa disegnate.
Pressata da Rino, che se non le avesse calzate ci avrebbe sentito una specie di tradimento, se ne era scelto un paio col tacco basso, per evitare di sembrare troppo più alta di Stefano. Si guardò allo specchio sollevando un po’ il vestito.
«Sono brutte» disse.
«Non è vero».
Rise in modo nervoso.
«Ma sì, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi».
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Si girò con un’espressione improvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?».
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58.
In cucina, ad aspettarci impazienti, già pronti da un pezzo, c’erano Fernando e Nunzia. Non li avevo mai visti così curati nell’aspetto. A quell’epoca i suoi, i miei, tutti i genitori, mi sembravano vecchi. Non facevo gran differenza tra loro e i nonni materni, quelli paterni, creature che ai miei occhi avevano tutte una sorta di vita fredda, un’esistenza senza niente in comune con la mia, con quella di Lila, di Stefano, di Antonio, di Pasquale. Le persone veramente divorate dal calore dei sentimenti, dalla foga dei pensieri, eravamo noi. Solo adesso, mentre scrivo, mi rendo conto che Fernando a quell’epoca non doveva avere più di quarantacinque anni, Nunzia era sicuramente di qualche anno più giovane, e insieme, quella mattina, lui in camicia bianca e abito scuro, il volto di Randolph Scott, e lei tutta in azzurro, con un cappellino azzurro e la veletta azzurra, facevano una gran bella figura. Stesso discorso per i miei genitori, sull’età dei quali posso essere più precisa: mio padre aveva trentanove anni, mia madre trentacinque. Li guardai a lungo, in chiesa.
Sentii con fastidio che, quel giorno, i miei successi nello studio non li consolavano nemmeno un poco, e anzi provavano, soprattutto a mia madre, che si trattava di un’inutile perdita di tempo. Quando Lila, splendida nel nimbo di abbagliante candore del suo abito e del velo vaporoso, avanzò per la chiesa della Sacra Famiglia al braccio dello scarparo e andò a raggiungere Stefano, bellissimo, sull’altare pieno di fiori – beato il fioraio che li aveva forniti in abbondanza –, mia madre, anche se il suo occhio ballerino pareva rivolto altrove, mi guardò per farmi pesare che io ero lì, occhialuta, lontana dal centro della scena, mentre la mia amica cattiva s’era conquistata un marito agiato, un’attività economica per la famiglia, una casa sua nientemeno di proprietà, con la vasca da bagno, la ghiacciaia, la televisione e il telefono.
La cerimonia fu lunga, il parroco la fece durare un’eternità.
All’ingresso in chiesa i parenti e gli amici dello sposo si erano disposti tutti insieme da un lato, i parenti e gli amici della sposa dall’altro. Il fotografo fece tutto il tempo un numero infinito di foto – flash, riflettori – mentre un suo
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giovane
aiutante filmava la funzione nelle fasi salienti.
Antonio mi sedette devotamente accanto tutto il tempo, col suo abito nuovo di sartoria, lasciando a Ada, seccatissima perché, in quanto commessa della salumeria dello sposo, avrebbe aspirato a ben altra collocazione, il compito di accomodarsi in fondo accanto a Melina e sorvegliarla, insieme agli altri fratelli. Una o due volte mi sussurrò qualcosa all’orecchio, ma non gli risposi. Doveva limitarsi a starmi accanto senza mostrare particolare intimità, per evitare pettegolezzi. Corsi con lo sguardo per la chiesa affollata, la gente si annoiava e come me si guardava continuamente intorno. C’era un profumo intenso di fiori, un odore di abiti nuovi. Gigliola era bellissima, bellissima anche Carmela Peluso. E i ragazzi non erano da meno. Enzo e soprattutto Pasquale parevano voler dimostrare che lì, sull’altare, accanto a Lila, avrebbero saputo fare una figura migliore di Stefano. Quanto a Rino, mentre il muratore e il fruttivendolo se ne stavano nel fondo della chiesa come sentinelle della buona riuscita della cerimonia, lui, il fratello della sposa, rompendo l’ordine degli schieramenti familiari s’era andato a collocare accanto a Pinuccia, nell’area dei parenti dello sposo, anche lui perfetto nell’abito nuovo, le scarpe Cerullo ai piedi, luccicanti quanto i capelli imbrillantinati. Che sfarzo. Era evidente che chiunque avesse ricevuto la partecipazione non aveva voluto mancare e anzi era intervenuto vestito da gran signore, cosa che, per quel che ne sapevo, per quello che tutti sapevano, significava di fatto che non pochi – forse Antonio per primo, che mi sedeva accanto – erano dovuti
andare a chiedere soldi in prestito. Guardai allora Silvio Solara, grosso, in abito scuro, in piedi dal lato dello sposo, molto oro scintillante ai polsi.
Guardai sua moglie Manuela, vestita di rosa, stracarica di gioie, che stazionava a lato della sposa. I soldi dello sfoggio venivano di lì. Morto don Achille, erano quell’uomo di colorito paonazzo, occhi azzurri, molto stempiato, e quella donna magra, col naso lungo e le labbra sottili, a prestare denaro a tutto il rione (o, per dir meglio, era Manuela a gestire i lati pratici di quell’attività: famoso e temuto era il registro con copertina rossa dentro cui lei segnava cifre, scadenze). Il matrimonio di Lila era stato di fatto un affare non solo per il fioraio, non solo per il fotografo, ma soprattutto per quella
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coppia, che tra l’altro aveva fornito anche la torta, anche i confetti delle bomboniere.
Lila, mi accorsi, non li guardò mai. Non si girò mai nemmeno verso Stefano, fissò solo il prete. Pensai che visti così, di spalle, non erano una bella coppia. Lila era più alta, lui più basso. Lila spandeva intorno un’energia che nessuno poteva ignorare, lui pareva un ometto sbiadito. Lila sembrava estremamente concentrata, come se fosse impegnata a capire fino in fondo cosa significava davvero quel rituale, lui invece ogni tanto si girava verso sua madre o scambiava risolini con Silvio Solara o si grattava lievemente in testa.
A un certo punto fui presa dall’ansia. Pensai: e se Stefano davvero non fosse quello che pare? Ma non andai fino in fondo a quel pensiero per due motivi.
Innanzitutto i due sposi si dissero sì in modo deciso e limpido, nella commozione generale: si scambiarono gli anelli, si baciarono, dovetti prendere atto che Lila si era davvero sposata. E poi successe che di colpo non badai più agli sposi. Mi resi conto che avevo intravisto tutti tranne Alfonso, lo cercai con lo sguardo tra i parenti dello sposo, tra quelli della sposa, e lo trovai in fondo alla chiesa, quasi nascosto da una colonna.
Gli feci un cenno, rispose, si mosse verso di me. Ma dietro di lui comparve in gran pompa Marisa Sarratore. E subito dopo, allampanato, mani in tasca, arruffato, con la giacchetta e i pantaloni stazzonati che portava a scuola, Nino.
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59.
Il seguito fu un confuso affollarsi intorno agli sposi, che uscivano dalla chiesa accompagnati da suoni vibrati d’organo, flash del fotografo. Lila e Stefano sostarono sul sagrato tra baci, abbracci, il caos delle automobili e i nervosismi dei parenti che venivano lasciati in attesa, mentre altri, nemmeno consanguinei – ma più importanti, più amati, più riccamente vestiti, le signore con cappelli particolarmente stravaganti? – erano caricati subito sulle auto e portati in via Orazio, al ristorante.
Quanto si era messo in ordine, Alfonso. Non lo avevo mai visto in abito scuro, camicia bianca, cravatta. Fuori dai suoi dimessi abiti di scuola, fuori dal camice da salumiere, mi sembrò non solo più grande dei suoi sedici anni, ma di colpo – pensai – fisicamente diverso da suo fratello Stefano. Era più alto, ormai, era più sottile, soprattutto pareva bello come un ballerino spagnolo che avevo visto in televisione, occhi grandi, labbra tumide, nessuna traccia ancora di barba. Marisa evidentemente gli si era attaccata alle costole, il rapporto era cresciuto, si dovevano essere visti senza che ne sapessi nulla.
Alfonso, pur così devoto a me, era stato vinto dalla capigliatura tutta riccioli di Marisa e della sua chiacchiera inarrestabile che lo esimeva, lui così timido, dal riempire i vuoti della conversazione? Si erano fidanzati? Ne dubitavo, lui me lo avrebbe detto. Ma le cose erano chiaramente a buon punto, tanto che l’aveva invitata al matrimonio del fratello. E lei, di sicuro per avere il permesso dei genitori, s’era tirata dietro a forza Nino.
Eccolo dunque lì, sul sagrato, il giovane Sarratore, del tutto fuori luogo col suo abbigliamento sciatto, troppo alto, troppo magro, capelli troppo lunghi e spettinati, le mani troppo sprofondate nelle tasche dei calzoni, l’aria di chi non sa dove collocarsi, gli occhi sugli sposi come tutti, ma senza alcun interesse, solo per poggiarli da qualche parte. Quella presenza inattesa contribuì molto al disordine emotivo della giornata. C’eravamo salutati in chiesa, un sussurro e basta, ciao, ciao. Nino poi s’era accodato alla sorella e ad Alfonso, io ero stata afferrata saldamente per un braccio da Antonio e, sebbene mi fossi subito divincolata, ero comunque finita in compagnia di
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Ada, di Melina, di Pasquale, di Carmela, di Enzo. Ora, nella ressa, mentre gli sposi si infilavano in una grande auto bianca insieme al fotografo e al suo aiutante per andare a far fotografie al parco della Rimembranza, mi venne l’ansia che la madre di Antonio riconoscesse Nino, che gli leggesse in viso qualche tratto di Donato. Ma fu una preoccupazione infondata. La madre di Lila, Nunzia, la trascinò con sé, svampita, insieme a Ada, ai figli più piccoli, in un’automobile che se la portò via.
In effetti nessuno riconobbe Nino, nemmeno Gigliola, nemmeno Carmela, nemmeno Enzo. Né si accorsero di Marisa, anche se lei aveva ancora tratti vicini alla bambina che era stata. I due Sarratore, sul momento, passarono del tutto inosservati. E intanto già Antonio mi spingeva verso la vecchia automobile di Pasquale, e con noi salivano Carmela ed Enzo, e già stavamo per partire, e io non seppi dire altro che: «Dove sono i miei genitori?
Speriamo che qualcuno se ne occupi». Enzo rispose che li aveva visti in non so quale automobile, e insomma non ci fu niente da fare, partimmo, e a Nino, fermo ancora sul sagrato con l’aria stordita, insieme ad Alfonso e a Marisa che parlavano tra loro, feci appena in tempo a lanciare uno sguardo, poi lo persi.
Diventai nervosa. Antonio mi sussurrò all’orecchio, sensibile a ogni mio mutamento d’umore:
«Che c’è?».
«Niente».