altri fratelli, un’apparenza di presentabilità per Melina.
Io non mi accorsi di nulla. Tirai avanti tra la scuola, le consulenze urgenti tutte le volte che s’ingarbugliavano le cose tra Lila, sua cognata, sua suocera, la piacevole ansia per l’articoletto che potevo veder pubblicato da un momento all’altro. Ero segretamente convinta che sarei esistita davvero solo dal momento in cui sarebbe comparsa stampata la mia firma, Elena Greco, e vivacchiavo aspettando quel giorno senza far troppa attenzione ad Antonio, che si era messo in testa di completare la sua vestizione per il matrimonio con un paio di scarpe Cerullo. Ogni tanto mi chiedeva: «Tu sai a che punto sono?». Gli rispondevo: «Domanda a Rino, tanto Lina non sa niente».
Era così. I Cerullo a novembre convocarono Stefano senza curarsi minimamente di mostrare prima le scarpe a Lila, che pure viveva ancora nella loro casa. Stefano invece si presentò di proposito con la fidanzata e con Pinuccia, tutt’e tre che parevano usciti dallo schermo della televisione. Lila mi disse di aver provato, nel veder realizzate le scarpe che aveva disegnato anni prima, un’emozione violentissima, come se le fosse apparsa una fata e le avesse realizzato un desiderio. Le scarpe erano proprio come se l’era immaginate a suo tempo. Anche Pinuccia restò a bocca aperta. Volle provare un modello che le piaceva e fece molti complimenti a Rino, dando a intendere che lo considerava il vero artefice di quei capolavori di leggerezza robusta, di armonia dissonante. L’unico che si mostrò scontento fu Stefano. Interruppe le feste che Lila faceva a suo fratello e a suo padre e ai lavoranti, zittì la voce mielosa di Pinuccia che si complimentava con Rino sollevando una caviglia per mostrargli il piede straordinariamente calzato, e modello dietro modello criticò le modifiche apportate ai disegni originali. Si accanì soprattutto sul confronto tra la scarpa maschile come era stata realizzata da Rino e Lila di nascosto da Fernando, e la stessa scarpa come l’avevano rifinita padre e figlio. «Cos’è questa frangia, cosa sono queste cuciture, cos’è questa fibbietta dorata?» chiese seccato. E per quanto Fernando spiegasse tutte le modifiche con ragioni di solidità o volte a camuffare qualche difetto di ideazione, Stefano fu irremovibile. Disse che aveva investito fin troppi soldi non per ottenere delle scarpe qualsiasi ma, precise identiche, le scarpe di Lila.
Ci furono molte tensioni. Lila si schierò blandamente in difesa del padre, disse al fidanzato di lasciar perdere: le sue erano fantasie di bambina e le modifiche, del resto non così rilevanti, erano sicuramente necessarie. Ma Rino appoggiò Stefano e la discussione andò avanti a lungo. S’interruppe solo quando Fernando, divorato dallo sfinimento, si sedette in un angolo e
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guardando i quadretti alla parete disse:
«Se vuoi le scarpe per Natale te le tieni così. Se le vuoi identiche a come le ha disegnate mia figlia, falle fare a un altro».
Stefano cedette, cedette anche Rino.
A Natale le scarpe comparvero in vetrina, una vetrina con la stella cometa disegnata con l’ovatta. Passai a vederle: erano oggetti eleganti, accuratamente rifiniti; solo a guardarle davano un’impressione di agiatezza che stonava con la vetrina povera, col paesaggio desolato all’esterno, con l’interno della calzoleria, tutto spezzoni di pelle e cuoi e banchi e lesine e forme di legno e scatole di scarpe ammucchiate fino al soffitto, in attesa di clienti. Pur con le modifiche apportate da Fernando, erano le calzature dei nostri sogni infantili, non pensate per la realtà del rione.
Infatti a Natale non se ne vendette nemmeno un paio. Solo Antonio si presentò, chiese a Rino un numero 44, se lo provò. Dopo mi raccontò il piacere che aveva provato a sentirsi così ben calzato, a immaginarsi con me al matrimonio, il vestito nuovo addosso, quelle scarpe ai piedi. Ma non se ne fece niente. Quando domandò qual era il prezzo e Rino gli rispose, restò a bocca aperta: «Sei pazzo?». E quando Rino gli disse: «Te le vendo a rate mensili» gli rispose ridendo: «Allora mi compro una Lambretta».
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56.
Sul momento Lila, presa dal matrimonio, non si rese conto di come suo fratello, fino a quel momento allegro, giocherellone anche se stremato dalla fatica, stesse tornando a incupirsi, a dormire male, ad arrabbiarsi per niente.
«È come un bambino» disse quasi a giustificarlo con Pinuccia per certi scatti,
«cambia umore a seconda che si soddisfino o no immediatamente i suoi capricci, non sa aspettare». Lei, come del resto Fernando, non sentì affatto la mancata vendita natalizia delle scarpe come un fiasco. In definitiva, la realizzazione delle calzature non aveva seguito alcun piano: nate dalla volontà di Stefano di veder concretizzato l’estro purissimo di Lila, ce n’erano di pesanti, ce n’erano di leggere, coprivano quasi tutte le stagioni. E questo era un bene. Nelle scatole bianche ammucchiate dentro la calzoleria Cerullo c’era un discreto assortimento. Bastava aspettare e in inverno, in primavera, in autunno, le scarpe si sarebbero vendute.
Ma Rino si agitò sempre più. Dopo Natale, di sua iniziativa, andò dal padrone del polveroso negozio di calzature in fondo allo stradone e, pur sapendo che quello era legato mani e piedi ai Solara, gli propose di esporre un po’ di scarpe Cerullo, senza impegno, tanto per vedere come andavano.
L’uomo gli disse garbatamente di no, quel prodotto non era adatto alla sua clientela. Lui se l’ebbe a male e ne derivò uno scambio di parolacce che si seppe in tutto il rione. Fernando si infuriò col figlio, Rino lo insultò, e Lila tornò a sentire il fratello come un elemento di disordine, una manifestazione delle forze distruttive che l’avevano spaventata. Quando uscivano in quattro, notava con apprensione che il fratello manovrava per lasciar andare avanti lei e Pinuccia e restare cinque passi indietro a discutere con Stefano. In genere il salumiere lo ascoltava senza dare segni di fastidio. Una volta sola Lila gli sentì dire:
«Scusa, Rino, secondo te io ho messo tanti soldi nella calzoleria così, a fondo perduto, solo per amore di tua sorella? Le scarpe le abbiamo fatte, sono belle, le dobbiamo vendere. Il problema è che bisogna trovare la piazza adatta».
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Quel “solo per amore di tua sorella” non le piacque. Ma lasciò perdere, perché quelle parole ebbero invece un buon effetto su Rino, che si acquietò e cominciò ad atteggiarsi a stratega delle vendite, soprattutto con Pinuccia.
Diceva che bisognava ragionare in grande. Perché tante iniziative buone erano fallite? Perché l’officina Gorresio aveva dovuto rinunciare ai ciclomotori? Perché la boutique della merciaia era durata sei mesi? Perché erano imprese di scarso respiro. Le scarpe Cerullo, invece, sarebbero uscite al più presto dal mercato del rione e si sarebbero affermate su piazze più ricche.
Intanto la data del matrimonio si avvicinava. Lila correva a provarsi l’abito da sposa, dava gli ultimi ritocchi alla sua futura casa, combatteva con Pinuccia e Maria che, tra le tante cose, mal tolleravano le intrusioni di Nunzia. Le tensioni, in prossimità del 12 marzo, crebbero sempre di più. Ma non fu da lì che arrivarono urti in grado di aprire crepe. Furono due eventi in particolare, l’uno dietro l’altro, che ferirono Lila in profondità.
Un pomeriggio gelido di febbraio mi chiese di punto in bianco se potevo accompagnarla dalla maestra Oliviero. Non aveva mai manifestato alcun interesse per lei, nessun affetto, nessuna gratitudine. Ora invece sentiva il bisogno di portarle di persona la partecipazione. Poiché in passato non le avevo mai riferito dei toni ostili che la maestra aveva usato spesso nei suoi confronti, non mi parve il caso di parlargliene in quell’occasione, tanto più che di recente la Oliviero mi era sembrata meno aggressiva, più tendente alla malinconia, e forse l’avrebbe accolta bene.
Lila mise una cura estrema nell’abbigliamento. Andammo a piedi fino alla palazzina dove abitava la maestra, a due passi dalla parrocchia. Mentre salivamo, mi accorsi che era molto in ansia. Io ero abituata a quel percorso, a quelle scale, lei no, non disse una parola. Girai la chiavetta del campanello, sentii il passo strascicato della Oliviero.
«Chi è?».
«Greco».
Aprì. Aveva sulle spalle una pellegrina viola e mezzo viso avvolto in una sciarpa. Lila subito le sorrise e disse:
«Maestra, vi ricordate di me?».
La Oliviero la fissò come faceva a scuola quando Lila dava fastidio, poi si rivolse a me parlando con qualche difficoltà, come se avesse il boccone in bocca:
«Chi è? Non la conosco».
Lila si confuse e disse in fretta, in italiano:
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«Sono Cerullo. Vi ho portato la partecipazione, mi sposo. E sarei molto contenta se veniste al mio matrimonio».
La maestra si rivolse a me, disse:
«Cerullo la conosco, questa non so chi è».
Ci chiuse la porta in faccia.
Restammo ferme sul pianerottolo per qualche attimo, poi le sfiorai una mano per confortarla. Lei si ritrasse, infilò la partecipazione sotto la porta e si avviò per le scale. In strada parlò in continuazione di tutte le noie burocratiche al comune e con la parrocchia e di come s’era rivelato utile mio padre.
L’altro dolore, forse ben più profondo, le venne a sorpresa da Stefano e dalla storia delle scarpe. Si era deciso da tempo che il comparato di fazzoletto sarebbe stato affidato a un parente di Maria che era emigrato a Firenze dopo la guerra e aveva messo su un piccolo commercio di roba vecchia di varia provenienza, soprattutto oggetti di metallo. Questo parente aveva sposato una fiorentina e lui stesso aveva assunto l’accento locale. Per via della sua cadenza godeva in famiglia di un certo prestigio, ragion per cui era stato già il compare di cresima di Stefano. Senonché, di punto in bianco, il futuro sposo cambiò idea.
Lila me ne parlò all’inizio come di un segno di nervosismo dell’ultimo momento. Per lei, che il compare lo facesse il tale o il tal altro era del tutto indifferente, l’essenziale era decidersi. Ma per qualche giorno Stefano le diede solo risposte vaghe, confuse, non si riusciva a capire con chi andava sostituita la coppia fiorentina. Poi, a meno di una settimana dalle nozze, venne fuori la verità. Stefano le comunicò come cosa fatta, senza nessuna giustificazione, che il compare di fazzoletto sarebbe stato Silvio Solara, il padre di Marcello e Michele.
Lila, che fino a quel momento non aveva nemmeno preso in considerazione la possibilità che un parente anche alla lontana di Marcello Solara fosse presente al suo matrimonio, ridiventò per qualche giorno la ragazzina che conoscevo bene. Coprì Stefano di insulti volgarissimi, disse che non voleva vederlo mai più. Si chiuse nella casa dei genitori, smise di occuparsi di qualsiasi cosa, non andò all’ultima prova dell’abito da sposa, non fece nulla di nulla che avesse a che fare con il matrimonio imminente.