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«L’hai sentito, ma’? L’hai sentito che ha detto? Si crede di essere il padrone assoluto, qua dentro».
Ci fu un attimo insopportabile di silenzio, poi Maria si alzò dalla seggiola dietro il banchetto della cassa e disse al figlio:
«Trova qualcuno pure per questo posto qui, perché io sono stanca e non voglio più faticare».
Stefano a quel punto ebbe un piccolo cedimento. Disse piano:
«Calmiamoci, non sono padrone di niente, i fatti della salumeria non riguardano solo me, ma tutti noi. Bisogna prendere una decisione. Pinù, tu hai bisogno di lavorare? No. Mammà, voi avete bisogno di stare tutta la giornata seduta là dietro? No. Allora diamo lavoro a chi ne ha bisogno. Al banco ci metto Ada e alla cassa poi ci penso. Sennò chi si preoccupa dello sposalizio?».
Non so per certo se dietro l’espulsione di Pinuccia e della madre dalla quotidianità della salumeria, dietro l’assunzione di Ada, ci fosse davvero Lila (Ada certo se ne convinse e se ne convinse soprattutto Antonio, che cominciò a parlare della nostra amica come di una fata buona). Di sicuro, che la cognata e la suocera avessero un mucchio di tempo libero per gettarsi sul suo matrimonio, non le giovò. Le due donne le complicarono ulteriormente la vita, su ogni minima cosa c’erano conflitti: le partecipazioni, l’arredo della chiesa, il fotografo, l’orchestrina, la sala per il ricevimento, il menu, la torta, le bomboniere, le fedi, persino il viaggio di nozze, visto che Pinuccia e Maria ritenevano poca cosa andare a Sorrento, Positano, Ischia e Capri. Così di punto in bianco fui tirata dentro, all’apparenza per dare a Lila un parere su questo e su quello, in realtà per sostenerla in una battaglia difficile.
Ero all’inizio della prima liceo, avevo molte materie nuove, difficili. La mia solita, cocciuta diligenza già mi stava annientando, studiavo con troppo accanimento. Ma una volta, di ritorno dalla scuola, incontrai la mia amica e lei mi disse a bruciapelo:
«Per favore, Lenù, domani mi vieni a dare un consiglio?».
Non sapevo nemmeno di cosa parlasse. Ero stata interrogata in chimica e non avevo fatto bella figura, cosa che mi faceva soffrire.
«Un consiglio per cosa?».
«Un consiglio sull’abito da sposa. Ti prego, non dirmi di no, perché se non vieni finisce che ammazzo mia cognata e mia suocera».
Andai. Mi unii a lei, a Pinuccia e a Maria con grande disagio. Il negozio era al Rettifilo e mi ricordo che m’ero ficcata un po’ di libri in una borsa
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sperando di trovare il modo di studiare. Fu impossibile. Dalle quattro del pomeriggio alle sette di sera guardammo figurini, toccammo stoffe, Lila provò abiti da sposa esposti sui manichini del negozio. Qualsiasi cosa mettesse addosso, la sua bellezza valorizzava l’abito, l’abito valorizzava la sua bellezza. Le stavano bene la rigida organza, il raso molle, il tulle nebuloso. Le stavano bene il corpetto di pizzo, gli sbuffi alle maniche. Le stavano bene la gonna larga come quella stretta, lo strascico lunghissimo come quello corto, il velo fluttuante e quello trattenuto, la coroncina di strass come di perline o di fiori d’arancio. Per lo più lei, obbediente, esaminava figurini o provava a infilarsi gli abiti che facevano bella figura sui manichini.
Ma a volte, quando non ce la faceva più per l’atteggiamento schizzinoso delle sue future parenti, insorgeva la Lila di una volta che mi fissava diritto negli occhi e diceva ironica, allarmando suocera, cognata: «Se andassimo su un bel raso verde, o un’organza rossa, o un bel tulle nero, o, ancora meglio, giallo?».
Ci voleva la mia risatina a segnalare che la sposa stava scherzando, per tornare a ponderare con serietà astiosa stoffe e modelli. La sarta non faceva che ripetere entusiasta: «Per favore, qualsiasi cosa scegliate, portatemi le foto del matrimonio che le voglio esporre qua in vetrina, così potrò dire: questa ragazza l’ho vestita io».
Il problema però era scegliere. Ogni volta che Lila propendeva per un modello, per una stoffa, Pinuccia e Maria si schieravano a favore di un altro modello, di un’altra stoffa. Io stetti sempre zitta, un po’ intontita da tutte quelle discussioni e anche dall’odore dei tessuti nuovi. Poi Lila mi chiese corrucciata:
«Tu che pensi, Lenù?».
Si fece silenzio. Percepii subito, con un certo stupore, che le due donne si aspettavano quel momento e lo temevano. Misi in atto una tecnica che avevo imparato a scuola e che consisteva in questo: tutte le volte che a una domanda non sapevo cosa rispondere, abbondavo nelle premesse con la voce sicura di chi sa con chiarezza dove vuole arrivare. Premisi – in italiano – che mi piacevano moltissimo i modelli sostenuti da Pinuccia e sua madre. Mi lanciai non in lodi ma in argomentazioni che dimostravano quanto erano adeguati alle forme di Lila. Nel momento in cui, come in classe coi professori, sentii di avere l’ammirazione, la simpatia di madre e figlia, scelsi uno dei figurini a caso, veramente a caso, stando attenta a non pescarlo tra quelli per cui Lila propendeva, e passai a dimostrare che conteneva in sintesi sia i pregi dei modelli sostenuti dalle due donne, sia i pregi dei modelli sostenuti dalla mia
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amica. La sarta, Pinuccia, la madre furono subito d’accordo con me. Lila si limitò a guardarmi con gli occhi stretti. Poi le tornò lo sguardo solito e si disse anche lei d’accordo.
All’uscita sia Pinuccia che Maria erano molto di buonumore. Si rivolgevano a Lila quasi con affetto e commentando l’acquisto mi tiravano in ballo di continuo con frasi tipo: come ha detto Lenuccia, oppure: Lenuccia giustamente ha detto. Lila manovrò per restare un po’ indietro, nella folla serale del Rettifilo. Mi chiese:
«Questo impari a scuola?».
«Cosa?».
«A usare le parole per prendere in giro la gente».
Mi sentii ferita, mormorai:
«Il modello che abbiamo scelto non ti piace?».
«Mi piace moltissimo».
«E allora?».
«Allora fammi il favore di venire con noi tutte le volte che te lo chiedo».
Ero arrabbiata, dissi:
«Mi vuoi usare per prenderle in giro?».
Capì che mi ero offesa, mi strinse forte una mano:
«Non ti volevo dire una cosa brutta. Volevo dire solo che sei brava a farti voler bene. La differenza tra me e te, da sempre, è che di me la gente ha paura e di te no».
«Forse perché tu sei cattiva» le dissi sempre più arrabbiata.
«Può essere» rispose, e percepii che le avevo fatto male come lei aveva fatto male a me. Allora, pentita, aggiunsi subito per rimediare:
«Antonio si farebbe uccidere per te: ha detto di ringraziarti perché hai dato lavoro a sua sorella».
«È Stefano che ha dato lavoro a Ada» replicò lei. «Io sono cattiva».
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