Cominciò la processione dei parenti. Prima arrivò sua madre, Nunzia, e le parlò accoratamente del bene della famiglia. Poi arrivò Fernando, burbero, che le disse di non fare la bambina: per chiunque volesse avere un futuro nel
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rione, avere per compare Silvio Solara era obbligatorio. Infine arrivò Rino, che le spiegò come stavano le cose con toni molto aggressivi e con il piglio dell’uomo d’affari che tiene soltanto al profitto: Solara padre era come una banca e soprattutto era il canale per collocare nei negozi di scarpe i modelli Cerullo. «Che vuoi fare?» le gridò con gli occhi gonfi e venati di sangue,
«vuoi rovinare me e tutta la famiglia e tutta la fatica che abbiamo fatto fino a ora?». Si affacciò subito dopo persino Pinuccia, che le disse, con un tono un po’ finto, quanto piacere avrebbe fatto anche a lei avere per compare di fazzoletto il commerciante di metalli di Firenze, ma bisognava ragionare, non si poteva buttare all’aria un matrimonio e cancellare un amore per una questione di così poco conto.
Passò un giorno e una notte. Nunzia se ne stette muta in un angolo senza muoversi, senza far niente per casa, senza andare a dormire. Poi sgattaiolò fuori di nascosto dalla figlia e mi venne a chiamare perché parlassi con Lila e mettessi una buona parola. Ne fui lusingata, pensai a lungo a come schierarmi. Era in ballo un matrimonio, una cosa pratica, articolatissima, sovraccarica di affetti e di interessi. Mi spaventai. Io, che ormai sapevo di potermela prendere pubblicamente con lo Spirito Santo sfidando l’autorità del professore di religione, escludevo che, se mi fossi trovata al posto di Lila, avrei avuto il coraggio di mandare tutto all’aria. Ma lei sì, lei ne sarebbe stata capace, anche se il matrimonio era a un passo dalla celebrazione. Che fare?
Sentivo che mi sarebbe bastato pochissimo per spingerla lungo quella via e che adoperarmi per quella finalità mi avrebbe dato molto piacere. Sotto sotto era ciò che volevo veramente: riportarla alla Lila pallida, la coda di cavallo, gli occhi stretti di rapace, addosso pezze da quattro soldi. Niente più quelle arie, quell’agire da Jacqueline Kennedy di rione.
Ma per disgrazia sua e mia mi sembrò un’azione meschina. Credendo di fare il suo bene, non volli restituirla al grigiore di casa Cerullo e così mi si piantò in testa un’idea sola e non seppi fare altro che dirgliela e ridirgliela con garbo suadente: Silvio Solara, Lila, non è Marcello e nemmeno Michele; è sbagliato fare confusione, lo sai meglio di me, l’hai detto tu stessa in altre occasioni. Non è lui che si è tirato in macchina Ada, non è lui che ci ha sparato addosso la notte di Capodanno, non è lui che si è piazzato a forza in casa tua, non è lui che ha detto quelle brutte cose su di te; Silvio farà il compare di fazzoletto e darà una mano a Rino e Stefano per lo smercio delle scarpe, tutto qui; non avrà nessun peso nella tua vita futura. Rimescolai le carte che ormai conoscevamo abbastanza. Parlai del prima e del dopo, della
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vecchia generazione e della nostra, di come noi fossimo diversi, di quanto lei e Stefano fossero diversi. E quest’ultimo argomento fece breccia, la sedusse, ci tornai su con molta passione. Stette ad ascoltarmi in silenzio, evidentemente voleva essere aiutata ad acquietarsi, e pian piano si acquietò.
Ma le lessi negli occhi che quella mossa di Stefano le aveva mostrato qualcosa di lui che non riusciva ancora a vedere con chiarezza e che proprio per questo la spaventava ancor più delle smanie di Rino. Mi disse:
«Forse non è vero che mi vuole bene».
«Come non ti vuole bene? Fa tutto quello che dici tu».
«Solo quando non gli metto a rischio i soldi veri» disse con un tono sprezzante che per Stefano Carracci non aveva mai usato.
Ad ogni modo tornò in circolazione. Non si fece vedere in salumeria, non andò alla casa nuova, non fu lei insomma a cercare di riconciliarsi. Aspettò che fosse Stefano a dirle: «Grazie, ti voglio molto bene, lo sai che ci sono cose che si è obbligati a fare». Solo allora lasciò che le venisse alle spalle e la baciasse sul collo. Ma poi si girò di scatto e guardandolo diritto negli occhi gli disse:
«Al mio matrimonio Marcello Solara non deve assolutamente mettere piede».
«Come faccio?».
«Non lo so, ma me lo devi giurare».
Lui sbuffò e disse ridendo:
«Va bene, Lina, te lo giuro».
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57.
Arrivò il 12 marzo, una giornata mite, già primaverile. Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi, a pettinarsi, a vestirsi.
Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul bordo del letto in mutande e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che pareva il corpo di una morta; davanti, sul pavimento a esagoni, c’era la conca di rame ricolma d’acqua fumante. Mi chiese a bruciapelo:
«Secondo te sto sbagliando?».
«A far che?».
«A sposarmi».
«Pensi ancora alla storia del compare di fazzoletto?».
«No, penso alla maestra. Perché non mi ha voluto far entrare?».
«Perché è una vecchia bisbetica».
Stette zitta per un po’ a fissare l’acqua che brillava nella conca, poi disse:
«Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare».
«Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito».
«No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre».
Feci un risolino nervoso, poi dissi: «Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono».
«Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine».
Si alzò, si tolse mutande e reggiseno, disse: «Dài, aiutami, che sennò faccio tardi».
Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere la testimone coinvolta della sua bellezza di sedicenne poche ore prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola.
Allora fu solo una tumultuosa sensazione di sconvenienza necessaria, una condizione in cui non si può girare lo sguardo dall’altra parte, non si può allontanare la mano senza riconoscere il proprio turbamento, senza dichiararlo proprio ritraendosi, senza quindi entrare in conflitto con
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l’imperturbata innocenza di chi ti sta turbando, senza esprimere proprio col rifiuto la violenta emozione che ti sconvolge, sicché ti obblighi a restare, a lasciarle lo sguardo sulle spalle di ragazzo, sui seni coi capezzoli intirizziti, sui fianchi stretti e le natiche tese, sul sesso nerissimo, sulle gambe lunghe, sulle ginocchia tenere, sulle caviglie ondulate, sui piedi eleganti; e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia, intorno il mobilio miserabile, su un pavimento sconnesso chiazzato d’acqua, e ti agita il cuore, ti infiamma le vene.