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Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui m’ero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per l’America, così alla ventura.

Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin fine, di ciò che avevo sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad altre catene, ma più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi sarebbero certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi sarei sottratto almeno all’oppressione che mi soffocava e mi schiacciava.

Se non che, giunto a Nizza, m’ero sentito cader l’animo. Gl’impeti miei giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi aveva tarlato dentro, e svigorito il cordoglio. L’avvilimento maggiore m’era venuto dalla scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte, così lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senz’alcuna preparazione.

Ora, sceso a Nizza, non ben risoluto ancora di ritornare a casa, girando per la città, m’era avvenuto di fermarmi innanzi a una grande bottega su l’ Avenue de la Gare, che recava questa insegna a grosse lettere dorate: DÉPÔT DE ROULETTES DE PRÉCISION

Ve n’erano esposte d’ogni dimensione, con altri attrezzi del giuoco e varii opuscoli che avevano sulla copertina il disegno della roulette.

Si sa che gl’infelici facilmente diventano superstiziosi, per quanto poi deridano l’altrui credulità e le speranze che a loro stessi la superstizione certe volte fa d’improvviso concepire e che non vengono mai a effetto, s’intende.

Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d’uno di quegli opuscoli: Méthode pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega con un sorriso sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai indietro, e (per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell’opuscolo.

Non sapevo affatto di che si trattasse, in che consistesse il giuoco e come fosse congegnato. Mi misi a leggere; ma ne compresi ben poco.

«Forse dipende,» pensai, «perché non ne so molto, io, di francese.»

Nessuno me l’aveva insegnato; avevo imparato da me qualche cosa, così, leggiucchiando nella biblioteca; non ero poi per nulla sicuro della pronunzia e temevo di far ridere, parlando.

Questo timore appunto mi rese dapprima perplesso se andare o no; ma poi pensai che m’ero partito per avventurarmi fino in America, sprovvisto di tutto e senza conoscere neppur di vista l’inglese e lo spagnuolo; dunque via,

con quel po’ di francese di cui potevo disporre e con la guida di quell’opuscolo, fino a Montecarlo, lì a due passi, avrei potuto bene avventurarmi.

«Né mia suocera né mia moglie,» dicevo fra me, in treno, «sanno di questo po’ di denaro, che mi resta in portafogli. Andrò a buttarlo lì, per togliermi ogni tentazione. Spero che potrò conservare tanto da pagarmi il ritorno a casa. E se no…»

Avevo sentito dire che non difettavano alberi – solidi – nel giardino attorno alla bisca. In fin de’ conti, magari mi sarei appeso economicamente a qualcuno di essi, con la cintola dei calzoni, e ci avrei fatto anche una bella figura. Avrebbero detto:

«Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo!»

Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L’ingresso, sì, non c’è male; si vede che hanno avuto quasi l’intenzione d’innalzare un tempio alla Fortuna, con quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez del portone, che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai.

Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno offrire a tutti coloro che vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi scorticati in un luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono adesso di avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono d’ogni educazione, non possono goderne. È vero tuttavia che la maggior parte della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro giro, non sono spesso in condizione di accorgersi della dubbia eleganza dell’imbottitura.

Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno lì a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare, tutta un’architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de’

numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre; e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno.

Ma non bisogna meravigliarsi di nulla.

— Ah, il 12! il 12! — mi diceva un signore di Lugano, pezzo d’omone, la cui vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le resistenti energie della razza umana. — Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero!

Non mi tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla fine, mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà.

Era innamorato del numero 12, quell’omone lì, e non sapeva più parlare d’altro. Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non aveva voluto sortire neppure una volta; ma lui non s’era dato per vinto: volta per volta, ostinato, la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all’ultimo, fino all’ora in cui i croupiers annunziano:

Messieurs, aux trois dernier!

Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente; niente, neanche al secondo; al terzo e ultimo, pàffete: il 12.

— M’ha parlato! — concluse, con gli occhi brillanti di gioja. — M’ha parlato!

È vero che, avendo perduto tutta la giornata, non gli eran restati per quell’ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva potuto rifarsi di nulla. Ma che gl’importava? Il numero 12 gli aveva parlato!

Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro versi del povero Pinzone, il cui cartolare de’ bisticci col seguito delle sue rime balzane, rinvenuto durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a quel signore:

Ero già stanco di stare alla bada

della Fortuna. La dea capricciosa

dovea pure passar per la mia strada.

E passò finalmente. Ma tignosa.

E quel signore allora si prese la testa con tutt’e due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta la faccia. Lo guardai, prima sorpreso, poi costernato.

— Che ha?

— Niente. Rido, — mi rispose.

Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la testa, che non poteva soffrire lo scotimento del riso.

Andate a innamorarvi del numero 12!

Prima di tentare la sorte – benché senz’alcuna illusione – volli stare un pezzo a osservare, per rendermi conto del modo con cui procedeva il giuoco.

Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo m’aveva lasciato immaginare.

In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato, era incassata la roulette.

Are sens

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