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Lo vidi, man mano che parlavo, impallidire e quasi rimpiccolirsi; evidentemente stava per chiedermi scusa. Mi alzai, sdegnato, dando una spallata.

— Bah! Io disprezzo lei e il suo sospetto, che non arrivo neanche a immaginare!

Pagai il mio conto e uscii.

Ho conosciuto un uomo venerando e degno anche, per le singolarissime doti dell’intelligenza, d’essere grandemente ammirato: non lo era, né poco né molto, per un pajo di calzoncini, io credo, chiari, a quadretti, troppo aderenti alle gambe misere, ch’egli si ostinava a portare. Gli abiti che indossiamo, il loro taglio, il loro colore, possono far pensare di noi le più strane cose.

Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in quanto mi pareva di non esser vestito male. Non ero in marsina, è vero, ma avevo un abito nero, da lutto, decentissimo. E poi, se – vestito di questi stessi panni – quel tedescaccio in prima aveva potuto prendermi per un babbeo, tanto che s’era arraffato come niente il mio denaro; come mai adesso costui mi prendeva per un mariuolo?

«Sarà forse per questo barbone,» pensavo, andando, «o per questi capelli troppo corti…»

Cercavo intanto un albergo qualunque, per chiudermi a vedere quanto avevo vinto. Mi pareva d’esser pieno di denari: ne avevo un po’ da per tutto, nelle tasche della giacca e dei calzoni e in quelle del panciotto; oro, argento, biglietti di banca; dovevano esser molti, molti!

Sentii sonare le due. Le vie erano deserte. Passò una vettura vuota; vi montai.

Con niente avevo fatto circa undicimila lire! Non ne vedevo da un pezzo, e mi parvero in prima una gran somma. Ma poi, pensando alla mia vita d’un tempo, provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca, col contorno di tutte le altre sciagure, m’avevan dunque immiserito a tal segno il cuore?

Presi a mordermi col mio nuovo veleno, guardando il denaro lì sul letto:

«Va’, uomo virtuoso, mansueto bibliotecario, va’, ritorna a casa a placare con questo tesoro la vedova Pescatore. Ella crederà che tu l’abbia rubato e acquisterà subito per te una grandissima stima. O va’ piuttosto in America,

come avevi prima deliberato, se questo non ti par premio degno alla tua grossa fatica. Ora potresti, così munito. Undicimila lire! Che ricchezza!»

Raccolsi il denaro; lo buttai nel cassetto del comodino, e mi coricai. Ma non potei prender sonno. Che dovevo fare, insomma? Ritornare a Montecarlo, a restituir quella vincita straordinaria? o contentarmi di essa e godermela modestamente? ma come? avevo forse più animo e modo di godere, con quella famiglia che mi ero formata? Avrei vestito un po’ meno poveramente mia moglie, che non solo non si curava più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per riuscirmi incresciosa, rimanendo spettinata tutto il giorno, senza busto, in ciabatte, e con le vesti che le cascavano da tutte le parti.

Riteneva forse che, per un marito come me, non valesse più la pena di farsi bella? Del resto, dopo il grave rischio corso nel parto, non s’era più ben rimessa in salute. Quanto all’animo, di giorno in giorno s’era fatta più aspra, non solo contro me, ma contro tutti. E questo rancore e la mancanza d’un affetto vivo e vero s’eran messi come a nutrire in lei un’accidiosa pigrizia. Non s’era neppure affezionata alla bambina, la cui nascita insieme con quell’altra, morta di pochi giorni, era stata per lei una sconfitta di fronte al bel figlio maschio d’Oliva, nato circa un mese dopo, florido e senza stento, dopo una gravidanza felice. Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che sorgono, quando il bisogno, come un gattaccio ispido e nero s’accovaccia su la cenere d’un focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza. Con undicimila lire avrei potuto rimetter la pace in casa e far rinascere l’amore già iniquamente ucciso in sul nascere dalla vedova Pescatore? Follie! E dunque? Partire per l’America? Ma perché sarei andato a cercar tanto lontano la Fortuna, quand’essa pareva proprio che avesse voluto fermarmi qua, a Nizza, senza ch’io ci pensassi, davanti a quella bottega d’attrezzi di giuoco? Ora bisognava ch’io mi mostrassi degno di lei, dei suoi favori, se veramente, come sembrava, essa voleva accordarmeli.

Via, via! O tutto o niente. In fin de’ conti, sarei ritornato come ero prima.

Che cosa erano mai undicimila lire?

Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai per dodici giorni di fila.

Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura; non ne provo stupore neanche adesso, sapendo pur troppo che tiro essa m’apparecchiava, favorendomi in quella maniera e in quella misura. In

nove giorni arrivai a metter sù una somma veramente enorme giocando alla disperata: dopo il nono giorno cominciai a perdere, e fu un precipizio.

L’estro prodigioso, come se non avesse più trovato alimento nella mia già esausta energia nervosa, venne a mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo. Mi arrestai, mi riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d’uno spettacolo orrendo, non infrequente, pare, in quel luogo.

Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del dodicesimo giorno, quando quel signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse, sconvolto e ansante, per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s’era poc’anzi ucciso là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai rimorso. Ero sicuro ch’egli m’aveva ajutato a vincere. Nel primo giorno, dopo quella nostra lite, non aveva voluto puntare dov’io puntavo, e aveva perduto sempre; nei giorni seguenti, vedendomi vincere con tanta persistenza, aveva tentato di fare il mio giuoco; ma non avevo voluto più io, allora: come guidato per mano dalla stessa Fortuna, presente e invisibile, mi ero messo a girare da un tavoliere all’altro. Da due giorni non lo avevo più veduto, proprio dacché m’ero messo a perdere, e forse perché lui non mi aveva più dato la caccia.

Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di trovarlo lì, steso per terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che affettava un’aria di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei calzoni per puntarli senza nemmeno guardare.

Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava composto, coi piedi uniti, come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male, cadendo; un braccio era aderente al corpo; l’altro, un po’ sospeso, con la mano raggrinchiata e un dito, l’indice, ancora nell’atto di tirare. Era presso a questa mano la rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse uscita dall’occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po’

dalle narici e dagli orecchi; altro, in gran copia, n’era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato.

Una dozzina di vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su l’occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a cacciarle via. Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel

misero volto orribilmente sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo.

Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel giorno stesso.

Avevo con me circa ottantaduemila lire.

Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno, dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.

VII: Cambio treno

Pensavo:

«Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto – fors’anche meglio.

«Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione. Ne ha finanche quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi col frastuono delle macine e con lo spolvero che vola per aria e lo veste di farina.

«Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco, là, nel molino.

Ma appena lo riavrò io:

«— Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s’è rotta la bronzina!

Signor Mattia, i denti del lubecchio!

«Come quando c’era la buon’anima della mamma, e Malagna amministrava.

«E mentr’io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E

di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l’altalena, e io nel mezzo a godere.

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