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— Come dice? Nossignore!

— Non si vendono giornali ad Alenga?

— Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli.

— C’è un albergo?

— C’è la locanda del Palmentino.

Era smontato da cassetta per alleggerire un po’ la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: «Se egli sapesse chi porta…».

Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:

«Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po’! Come mi chiamo?»

Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente!

Accozzavo sillabe, così, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, che m’irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne… Eh, via! uno qualunque… Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni… Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: «Sì! Carlo Martello…». E la smania ricominciava.

Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente, là, dal farmacista, ch’era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una

copia dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno.

Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli, con un pajo d’occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena, certe pàlpebre cartilaginose.

Il Foglietto? Non lo conosco.

— È un giornaluccio di provincia, settimanale, — gli spiegai. — Vorrei averlo. Il numero d’oggi, s’intende.

Il Foglietto? Non lo conosco — badava a ripetere.

— E va bene! Non importa che lei non lo conosca: io le pago le spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci, venti copie, domani o al più presto. Si può?

Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: — Il Foglietto?… Non lo conosco —. Finalmente si risolse a fare il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia.

E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto.

Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m’ero affrettato a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il mio nome. Così:

MATTIA PASCAL

Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremendacosternazione e d’inenarrabile angoscia per la desolata famiglia;costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostracittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell’animo, per la

giovialità del carattere e per quella natural modestia, che gli avevapermesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento econ rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza siera in questi ultimi tempi ridotto in umile stato.

Quando, dopo il primo giorno dell’inesplicabile assenza, la famigliaimpressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli,zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno adarricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa laporta; subito, innanti a questa porta chiusa, sorse nero e trepidante ilsospetto, sospetto tosto fugato dalla lusinga che durò parecchi dì, manmano però raffievolendosi, ch’egli si fosse allontanato dal paese perqualche sua segreta ragione.

Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella!

La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell’unicafiglioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamentesconvolto l’animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesiaddietro, già una prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôrfine a’ suoi miseri giorni, là, nella gora appunto di quel molino, chegli ricordava i passati splendori della sua casa ed il suo tempo felice.

…Nessun maggior dolore

Che ricordarsi del tempo felice

Nella miseria…

Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi algrondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e devotoalla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte, lugubre; unalucerna rossa era stata deposta lì per terra, presso al cadavere vigilatoda due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina (lo segnaliamoall’ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli erariuscito in quella triste notte a impedire che l’infelice riducesse adeffetto il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brinapronto ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque,forse tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora di quelmolino.

Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sulluogo, quando l’altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si

trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del dilettocompagno, che era andato a raggiungere la figlioletta sua.

Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarloaccompagnando all’estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi ecommosse parole d’addio il nostro assessore comunale cav. Pomino.

Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratelloRoberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e colcuore lacerato diciamo per l’ultima volta al nostro buon Mattia: —

Vale, diletto amico, vale!

M. C.

Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia.

Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l’aspettassi, non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti interrompere la lettura. La «“tremenda costernazione e l’inenarrabile angoscia”» della mia famiglia non mi fecero ridere, né l’amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo per l’ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa, dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch’era stato come una prova, e forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e avvilimento.

Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l’idea! Me n’ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi; e un altro, invece, s’era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo – oh suprema irrisione! – a subir quello che non gli apparteneva, falso compianto, e finanche l’elogio funebre dell’incipriato cavalier Pomino!

Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto.

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