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«Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca di mia suocera uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore, che la vedova custodisce con la canfora e col pepe come sante reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e mandassi lei a fare il mugnajo e a star sopra al fattore.

«L’aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie. Forse a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva. E io rimarrò bibliotecario, solo soletto, a Santa Maria Liberale.»

Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché subito m’appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là,

nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie.

E godevo nel rappresentarmi la scena dell’arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa.

Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe, al mio entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un’occhiata, come per dire:

«To’, qua di nuovo? Non t’eri rotto l’osso del collo?»

Zitte loro, zitto io.

Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato a sputar bile, rifacendosi dall’impiego che forse avevo perduto.

M’ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia della mia sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta, per ordine della questura: e, non trovandomi là entro, morto, né avendosi d’altra parte tracce o notizie di me, quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro, cinque giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche altro sfaccendato il mio posto.

Dunque, che stavo a far lì, seduto? M’ero buttato di nuovo, da me, in mezzo a una strada? Ci stéssi! Due povere donne non potevano aver l’obbligo di mantenere un fannullone, un pezzaccio da galera, che scappava via così, chi sa per quali altre prodezze, ecc., ecc.

Io, zitto.

Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio dispettoso, cresceva, ribolliva, scoppiava: – e io, ancora lì, zitto!

A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli e mi sarei messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille: là, là, là e là…

Spalancamento d’occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di mia moglie.

Poi:

«— Dove li hai rubati?»

«— …settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno; cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque; ottantunmila settecento venticinque lire, e quaranta centesimi in tasca.»

Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli, e mi sarei alzato.

«— Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie! Me ne vado, e salute a voi.»

Ridevo, così pensando.

I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch’essi, sotto sotto.

Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a’ miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m’avrebbero servito, nascosti?

Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì, col molino della Stìa e coi frutti del podere, dovendo pagare anche l’amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino), chi sa quant’anni ancora avrebbero dovuto aspettare.

Ora, forse, con un’offerta in contanti, me li sarei levati d’addosso a buon patto. E facevo il conto:

«Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani… Chi altro c’è? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini…

Ecco tutta la mia vincita!»

Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que’ due giorni di perdita! Sarei stato ricco di nuovo… ricco!

Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera: l’aria pareva di cenere; e l’uggia del viaggio era insopportabile.

Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valençay, messo all’incanto per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi. La tenuta attorno al castello era di duemila ottocento ettari: la più vasta di Francia.

«Press’a poco, come la Stìa…»

Lessi che l’imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì, l’ambasciata marocchina, e che al ricevimento aveva assistito il segretario di Stato, barone de Richtofen. La missione, presentata poi all’imperatrice, era stata trattenuta a colazione, e chi sa come aveva divorato!

Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. i doni del Lama.

«I doni del Lama?» domandai a me stesso, chiudendo gli occhi, cogitabondo. «Che saranno?»

Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa virtù: mi ridestai, infatti, presto, a un urto del treno che si fermava a un’altra stazione.

Guardai l’orologio: eran le otto e un quarto. Fra un’oretta, dunque, sarei arrivato.

Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un SUICIDIO

così, in grassetto.

Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m’affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo

carattere: «“Ci telegrafano da Miragno”».

Are sens

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