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Mi scrollai tutto: sdegnosamente, e la piantai lì in asso.

Poco dopo, rientrando nella sala da giuoco, la vidi che conversava con un signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po’ loschi, spagnuolo all’aspetto. Gli aveva dato la rosa poc’anzi offerta a me. A una certa mossa d’entrambi, m’accorsi che parlavano di me; e mi misi in guardia.

Entrai in un’altra sala; m’accostai al primo tavoliere, ma senza intenzione di giocare; ed ecco, ivi a poco, quel signore, senza più la donna, accostarsi anche lui al tavoliere, ma facendo le viste di non accorgersi di me.

Mi posi allora a guardarlo risolutamente, per fargli intendere che m’ero bene accorto di tutto, e che con me, dunque, l’avrebbe sbagliata.

Ma non aveva affatto l’apparenza d’un mariuolo, costui. Lo vidi giocare, e forte: perdette tre colpi consecutivi: batteva ripetutamente le pàlpebre, forse per lo sforzo che gli costava la volontà di nascondere il turbamento. Al terzo colpo fallito, mi guardò e sorrise.

Lo lasciai lì, e ritornai nell’altra sala, al tavoliere dove dianzi avevo vinto.

I croupiers s’erano dati il cambio. La donna era lì al posto di prima. Mi tenni addietro, per non farmi scorgere, e vidi ch’ella giocava modestamente, e non tutte le partite. Mi feci innanzi; ella mi scorse: stava per giocare e si trattenne, aspettando evidentemente che giocassi io, per puntare dov’io puntavo. Ma aspettò invano. Quando il croupier disse: — Le jeu est fait!

Rien ne va plus! — la guardai, ed ella alzò un dito per minacciarmi scherzosamente. Per parecchi giri non giocai; poi, eccitatomi di nuovo alla vista degli altri giocatori, e sentendo che si raccendeva in me l’estro di prima, non badai più a lei e mi rimisi a giocare.

Per qual misterioso suggerimento seguivo così infallibilmente la variabilità imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa divinazione nell’incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze, addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch’io cimentavo tutto, tutto, la vita fors’anche, in quei colpi ch’eran vere e proprie sfide alla sorte? No, no: io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, in quei momenti, per cui domavo, affascinavo la

fortuna, legavo al mio il suo capriccio. E non era soltanto in me questa convinzione; s’era anche propagata negli altri, rapidamente; e ormai quasi tutti seguivano il mio giuoco rischiosissimo. Non so per quante volte passò il rosso, su cui mi ostinavo a puntare: puntavo su lo zero, e sortiva lo zero.

Finanche quel giovinetto, che tirava i luigi dalla tasca dei calzoni, s’era scosso e infervorato; quel grosso signore bruno arrangolava più che mai.

L’agitazione cresceva di momento in momento attorno al tavoliere; eran fremiti d’impazienza, scatti di brevi gesti nervosi, un furor contenuto a stento, angoscioso e terribile. Gli stessi croupiers avevano perduto la loro rigida impassibilità.

A un tratto, di fronte a una puntata formidabile, ebbi come una vertigine.

Sentii gravarmi addosso una responsabilità tremenda. Ero poco men che digiuno dalla mattina, e vibravo tutto, tremavo dalla lunga violenta emozione. Non potei più resistervi e, dopo quel colpo, mi ritrassi, vacillante. Sentii afferrarmi per un braccio. Concitatissimo, con gli occhi che gli schizzavano fiamme, quello spagnoletto barbuto e atticciato voleva a ogni costo trattenermi – Ecco: erano le undici e un quarto; i croupiers invitavano ai tre ultimi colpi: avremmo fatto saltare la banca!

Mi parlava in un italiano bastardo, comicissimo; poiché io, che non connettevo già più, mi ostinavo a rispondergli nella mia lingua:

— No, no, basta! non ne posso più! Mi lasci andare, caro signore.

Mi lasciò andare; ma mi venne appresso. Salì con me nel treno di ritorno a Nizza, e volle assolutamente che cenassi con lui e prendessi poi alloggio nel suo stesso albergo.

Non mi dispiacque molto dapprima l’ammirazione quasi timorosa che quell’uomo pareva felicissimo di tributarmi, come a un taumaturgo. La vanità umana non ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e l’incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli. Ero come un generale che avesse vinto un’asprissima e disperata battaglia, ma per caso, senza saper come. Già cominciavo a sentirlo, a rientrare in me, e man mano cresceva il fastidio che mi recava la compagnia di quell’uomo.

Tuttavia, per quanto facessi, appena sceso a Nizza, non mi riuscì di liberarmene: dovetti andar con lui a cena. E allora egli mi confessò che me l’aveva mandata lui, là, nell’atrio del casino, quella donnetta allegra, alla quale da tre giorni egli appiccicava le ali per farla volare, almeno terra terra; ali di biglietti di banca; dava cioè qualche centinajo di lire per farle tentar la sorte. La donnetta aveva dovuto vincer bene, quella sera, seguendo il mio giuoco, giacché, all’uscita, non s’era più fatta vedere.

— Che podo far? La póvara avrà trovato de meglio. Sono viechio, ió. E

agradecio Dio, ántes, che me la son levada de sobre!

Mi disse che era a Nizza da una settimana e che ogni mattina s’era recato a Montecarlo, dove aveva avuto sempre, fino a quella sera, una disdetta incredibile. Voleva sapere com’io facessi a vincere. Dovevo certo aver capito il giuoco o possedere qualche regola infallibile.

Mi misi a ridere e gli risposi che fino alla mattina di quello stesso giorno non avevo visto neppure dipinta una roulette, e che non solo non sapevo affatto come ci si giocasse, ma non sospettavo nemmen lontanamente che avrei giocato e vinto a quel modo. Ne ero stordito e abbagliato più di lui.

Non si convinse. Tanto vero che, girando abilmente il discorso (credeva senza dubbio d’aver da fare con una birba matricolata) e parlando con meravigliosa disinvoltura in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa, venne a farmi la stessa proposta a cui aveva tentato di tirarmi, nella mattinata, col gancio di quella donnetta allegra.

— Ma no, scusi! — esclamai io, cercando tuttavia d’attenuare con un sorriso il risentimento. — Può ella sul serio ostinarsi a credere che per quel giuoco là ci possano esser regole o si possa aver qualche segreto? Ci vuol fortuna! ne ho avuta oggi; potrò non averne domani, o potrò anche averla di nuovo; spero di sì!

— Ma porqué lei, — mi domandò, — non ha voluto occi aproveciarse de la sua fortuna?

— Io, aprove…

— Sì, come puedo decir? avantaciarse, voilà!

— Ma secondo i miei mezzi, caro signore!

— Bien! — disse lui. — Podo ió por lei. Lei, la fortuna, ió metaró el dinero.

— E allora forse perderemo! — conclusi io, sorridendo. — No, no…

Guardi! Se lei mi crede davvero così fortunato, – sarò tale al giuoco; in tutto il resto, no di certo – facciamo così: senza patti fra noi e senza alcuna responsabilità da parte mia, che non voglio averne, lei punti il suo molto dov’io il mio poco, come ha fatto oggi; e, se andrà bene…

Non mi lasciò finire: scoppiò in una risata strana, che voleva parer maliziosa, e disse:

— Eh no, segnore mio! no! Occi, sì, l’ho fatto: no lo fado domani seguramente! Si lei punta forte con migo, bien! si no, no lo fado seguramente! Gracie tante!

Lo guardai, sforzandomi di comprendere che cosa volesse dire: c’era senza dubbio in quel suo riso e in quelle sue parole un sospetto ingiurioso per me.

Mi turbai, e gli domandai una spiegazione.

Smise di ridere; ma gli rimase sul volto come l’impronta svanente di quel riso.

— Digo che no, che no lo fado, — ripeté. — No digo altro!

Battei forte una mano su la tavola e, con voce alterata, incalzai:

— Nient’affatto! Bisogna invece che dica, spieghi che cosa ha inteso di significare con le sue parole e col suo riso imbecille! Io non comprendo!

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