Mia zia, sia detto di passaggio, permetteva al mio cavallo l’accesso sul suolo sacro, ma s’era conservata inflessibile verso gli asini.
– Fra poco sarà più desto – io dissi.
– Ad ogni modo la cavalcata farà bene al padrone –
osservò mia zia con un’occhiata ai fogli sul mio tavolino. – Ah, figlio mio, tu passi molte ore qui! Io non pensavo mai, quando leggevo i libri, che ci volesse tanta fatica per scriverli.
– A volte è già una bella fatica leggerli – io risposi. –
Ma lo scriverli ha i suoi fascini, zia.
– Ah, capisco! – disse mia zia. – L’ambizione, l’amore della lode, la simpatia, e tante altre cose, credo.
Bene, va’!
– Sapete qualche altra cosa – dissi, standole compo-1528
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stamente di fronte (essa m’aveva battuto affettuosamente sulla spalla, sedendosi nella mia poltrona) – di quella passione segreta di Agnese?
Ella mi guardò un po’ in viso, e poi rispose:
– Credo di sì, Trot!
– La vostra impressione è solida? – chiesi.
– Credo di sì, Trot.
Mi guardava fissamente in viso: con una specie di dubbio, o pietà, o sospensione nel suo affetto, tanto che feci il massimo sforzo per mostrarmi indiscutibilmente allegro.
– E ciò che è più, Trot... – disse mia zia. – Bene...
– Credo che Agnese stia per maritarsi.
– Dio la benedica – dissi, allegramente.
– Dio benedica lei – disse mia zia – e benedica anche il marito.
Facendo eco all’augurio, mi separai da mia zia, andai giù, montai a cavallo, e spronai la bestia. V’era maggior ragione di prima per fare ciò che avevo risoluto di fare.
Come ricordo bene la cavalcata di quel giorno! I minuz-zoli di ghiaccio, spazzati dal vento sulle erbe, mi volavano in faccia; gli zoccoli del cavallo battevano in cadenza sul suolo indurito; la neve, trasportata dalla brezza, turbinava nelle cave di gesso; i cavalli fumanti, at-1529
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taccati ai carri carichi di fieno, si fermavano per respirare sulla spianata della collina e agitavano armoniosamente i bubboli; le pendici e le pianure di Downland sotto il cielo fosco sembravano disegnate su una lavagna colossale.
Trovai Agnese sola. Le sue piccole allieve se ne erano andate, ed ella leggeva accanto al fuoco. Depose il libro, vedendomi entrare, mi diede il benvenuto, come usava sempre, prese il cestino da lavoro, e si sedette nel vano della finestra.
Mi sedetti accanto a lei, e ci mettemmo a parlare del lavoro che stavo scrivendo, del tempo che mi sarebbe occorso per finirlo, e della quantità di fogli scritti dal giorno della mia ultima visita. Agnese era allegra; e scherzosamente mi disse che sarei diventato tanto celebre che non m’avrebbe potuto più interrogare su simili soggetti.
– Così, come vedete – disse Agnese – mi affretto a parlarvene ora che sono in tempo.
Guardavo il suo bel viso, chinato sul lavoro. Ella levò i suoi puri occhi sereni e vide che la guardavo:
– Voi siete pensoso, oggi, Trotwood!
– Agnese, vi dirò il perché! Son venuto per dirvelo.
Ella mise da parte il lavoro come usava fare quando si discuteva di qualche cosa di grave; e mi prestò tutta la 1530
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sua attenzione.
– Mia cara Agnese, dubitate della mia sincerità con voi?
– No! – ella rispose, con uno sguardo di sorpresa.
– Dubitate che io non sia più per voi ciò che sono sempre stato?
– No! – rispose, come la prima volta.
– Ricordate che tentai di dirvi, nel momento del mio ritorno, il debito di gratitudine che avevo verso di voi, carissima Agnese, e tutto l’ardore affettuoso che sentivo per voi?
– Me lo ricordo benissimo – ella disse dolcemente.
– Voi avete un segreto – dissi. – Permettetemi d’esserne a parte, Agnese.