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– Il Ventotto – rispose il mio informatore, parlando sempre a voce bassa e di sopra la spalla, per non farsi sorprendere da Creakle e dagli altri, mentre s’andava per il corridoio, a dir male di quegli innocenti – il Ventotto (condannato anche lui alla deportazione) entrò in servizio d’un giovane, e lo derubò di qualche cosa come duecento sterline in denari e oggetti preziosi, alla vigilia della sua partenza per l’estero. Ricordo particolarmente questo caso, perché egli fu arrestato da una nana.

– Da chi?

– Da una minuscola donna della quale non ricordo più il nome.

– Mowcher, forse?

– Proprio! Egli era riuscito a fuggire ed era in procinto di emigrare in America, truccato con una parrucca, baffi, e un completo travestimento accomodato a perfezio-1522

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ne, quando s’imbatté in una via di Southampton da quella donna minuscola. Essa, con quel suo occhio finissi-mo, lo riconobbe all’istante... gli corse fra le gambe facendolo stramazzare al suolo, e tenendolo fermo come la morte.

– Brava la signorina Mowcher! – esclamai.

– Così le avreste detto, se l’aveste veduta, come la vidi io, di su una sedia fare la sua deposizione alla Corte –

disse il mio amico. – Egli le fece un gran taglio in faccia, e la percosse nella maniera più brutale, così trattenuto; ma ella continuò a tenerlo stretto, finché non lo vide sotto catenaccio. Lo stringeva così, infatti, che le guardie furono obbligate a condurli tutti e due. Ella fece la sua testimonianza con tanta gioiosa vivacità che la Corte si divertì un mondo, e il pubblico l’accompagnò plaudente al l’albergo. Aveva detto alla Corte, che sapendo ciò che sapeva di lui, lo avrebbe afferrato con una sola mano, anche se fosse stato Sansone. E credo che l’avrebbe fatto.

Anch’io credevo lo stesso, ed ebbi perciò una ottima opinione della signorina Mowcher.

Intanto avevamo veduto tutto ciò che c’era da vedere.

Sarebbe stato inutile di dire a un cieco come il signor Creakle, che il Ventisette e il Ventotto erano perfettamente immutati; che in quel momento erano esattamente ciò che erano stati prima; che quegli ipocriti furfanti 1523

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erano appunto i tipi capaci di mostrarsi pentiti in un luogo come quello; che essi sapevano il valore commerciale del loro pentimento almeno così come lo sapevamo noi, e calcolavano i vantaggi che avrebbe loro apportato, nel momento che sarebbero stati espatriati; in una parola, che tutto non era che una trista, nauseante commedia.

Li abbandonammo a loro stessi e al loro sistema, e ce ne andammo via dubitosi..

– Forse è bene, Traddles – io dissi – che una insana tendenza sia accanitamente coltivata: è più presto soppres-sa.

– Forse sì – rispose Traddles.

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LXII.

UN ASTRO SUL MIO CAMMINO

Eravamo giunti a Natale, ed io ero a casa da più di due mesi. Avevo visto spesso Agnese. Per quanto alta fosse la voce d’incoraggiamento che mi veniva dal pubblico, e fervidi lo sforzo e la commozione che in me suscitava, la minima parola di lode dettami da lei valeva cento volte più delle altre.

Andavo a trovarla e a passar la serata in casa sua almeno una volta la settimana, e talora più spesso. Di solito tornavo a casa la notte a cavallo; perché ero ripreso dal mio antico sentimento di tristezza... specialmente quando la lasciavo... ed ero lieto d’esser all’aperto a cavallo e di non stare a rivangare il passato in una insonnia penosa o in sogni ancora più penosi. Passavo dunque a cavallo la parte più lunga di quelle tristi notti, rievocando per strada, i pensieri che m’avevano occupato nella mia lunga assenza.

O, per esprimermi con maggior precisione, ascoltando gli echi di quei pensieri, che mi arrivavano come da una remota distanza. Li avevo allontanati, accettando il mio inevitabile destino. Quando leggevo ad Agnese ciò che scrivevo, vedendo il suo volto intento muoversi al riso o 1525

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al pianto, e udendo la sua voce soave prendere una parte così viva agli eventi ideali del mondo fantastico in cui vivevo, pensavo a ciò che avrebbe potuto essere la mia vita... Solo ci pensavo come avevo pensato, dopo aver sposato Dora, a ciò che avrei voluto che mia moglie fosse.

Tutto ciò che comprendevo e sentivo era il mio dovere verso Agnese, che m’amava d’un amore che non potevo turbare senza rischiar di perderlo e rendermi colpevole di un miserabile egoismo. Ero pienamente convinto, che essendo stato io a formarmi con le mie stesse mani il destino al quale soggiacevo, ottenendone ciò che gli avevo domandato, non avessi il diritto di mormorare e non avessi più che da sopportarlo. Ma io le volevo bene, e trovavo qualche consolazione nella speranza che sarebbe forse spuntato un giorno in cui avrei potuto con-fessarglielo senza rimorso: «Agnese, fu così quando tornai dall’estero, e ora son vecchio, e da quel momento non ho amato più nessun’altra».

Ella non mi dava a divedere in lei nessun cambiamento mai. Come s’era mostrata sempre con me, si conservava ancora: interamente immutata.

Fra me e mia zia v’era stato, a questo riguardo, dalla sera del mio ritorno, qualche cosa che non posso dire una riserva o un proposito di evitare l’argomento; ma il tacito accordo che esso ci stava a entrambi a cuore, senza che esprimessimo i nostri pensieri a parole. Quando, 1526

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secondo il nostro costume, sedevamo innanzi al fuoco la sera, spesso ci trovavamo a seguir questo medesimo corso di meditazioni, e con tanta naturalezza e consapevolezza reciproca del nostro intimo pensiero, da far credere che ci fossimo dati espressamente l’intesa. Ma noi conservavamo un silenzio ininterrotto. Io credevo che quella sera ella avesse, in tutto o in parte, indovinato i miei pensieri: e che comprendesse pienamente la ragione perché io non li formulavo più chiaramente.

Giunto il Natale, e non avendo io ricevuta alcuna nuova confidenza da Agnese, il dubbio che m’era sorto parecchie volte – ch’ella, cioè, avesse in qualche modo la percezione del mio amore, e tacesse per timore di ferirmi –

cominciò ad opprimermi gravemente. Stando così le cose, il mio sacrificio non serviva a nulla; tutta la gratitudine che le dovevo rimaneva perfettamente sterile; e il male che non avevo in animo di farle veniva quotidianamente perpetrato. Risolsi di metter subito ogni cosa in chiaro; e se fra noi esistesse mai una barriera simile, romperla con animo risoluto.

Era una rigidissima giornata invernale – ho una gran ragione per ricordarla con precisione! – aveva nevicato alcune ore prima, e la neve, non molto alta, ma già dura, ricopriva il terreno. Oltre la mia finestra, in mare, il vento soffiava violentemente da nord. Avevo pensato al vento che allora spazzava sulle montagne svizzere i deserti di neve in quella stagione inaccessibili al piede 1527

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umano, e m’ero domandato se fossero più sole quelle regioni solitarie o quell’oceano deserto.

– Vai a cavallo, Trot? – disse mia zia, facendo capolino alla porta.

– Sì – dissi – vado fino a Canterbury. È una bella giornata per cavalcare.

– M’auguro che anche il tuo cavallo sia dello stesso parere – disse mia zia; – ma in questo momento sta fuori innanzi alla porta con la testa e le orecchie basse, come se pensasse preferibile la stalla.

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