volve sua spera e beata si gode.
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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr' una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva.
L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand' è disceso al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest' acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, 32
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con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.
CANTO VIII
[Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno detta Dite.]
Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno, tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella, com' io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», 33
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disse lo mio segnore, «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l'ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand' io fui dentro parve carca.
Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».