Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.
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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
CANTO VI
[Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i 24
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buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.]
Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani; de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo.
E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne.
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Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levò, ratto ch'ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se' per questo 'nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: