«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d'esto fondo a dipartirci».
Rispuose adunque: «Più che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt' i vallon feri, salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».
Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina».
E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi'
ch'elli è bugiardo e padre di menzogna».
Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d'ira nel sembiante; ond' io da li 'ncarcati mi parti'
dietro a le poste de le care piante.
CANTO XXIV
[Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.]
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In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e là si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand' io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver' la cima
d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa; 106
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ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».
Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto più che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta
che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era del polmon sì munta quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta.
«Omai convien che tu così ti spoltre», disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia.
Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».
Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia, e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».
Su per lo scoglio prendemmo la via, 107
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ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com' i' odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro».