Ma se l'amor de la spera supprema torcesse in suso il disiderio vostro, non vi sarebbe al petto quella tema; ché, per quanti si dice più lì 'nostro', tanto possiede più di ben ciascuno, e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son d'esser contento più digiuno», diss' io, «che se mi fosse pria taciuto, e più di dubbio ne la mente aduno.
Com' esser puote ch'un ben, distributo in più posseditor, faccia più ricchi di sé che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me: «Però che tu rificchi la mente pur a le cose terrene,
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di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com' a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d'ardore; sì che, quantunque carità si stende, cresce sovr' essa l'etterno valore.
E quanta gente più là sù s'intende, più v'è da bene amare, e più vi s'ama, e come specchio l'uno a l'altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama, vedrai Beatrice, ed ella pienamente ti torrà questa e ciascun' altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente, come son già le due, le cinque piaghe, che si richiudon per esser dolente».
Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe', vidimi giunto in su l'altro girone, sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone; e una donna, in su l'entrar, con atto dolce di madre dicer: «Figliuol mio, perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque, ciò che pareva prima, dispario.
Indi m'apparve un'altra con quell' acque giù per le gote che 'l dolor distilla quando di gran dispetto in altrui nacque, e dir: «Se tu se' sire de la villa 227
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del cui nome ne' dèi fu tanta lite, e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E 'l segnor mi parea, benigno e mite, risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama è per noi condannato?».
Poi vidi genti accese in foco d'ira con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a sé pur: «Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava già, inver' la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte, orando a l'alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a' suoi persecutori, con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l'anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com' om che dal sonno si slega, disse: «Che hai che non ti puoi tenere, ma se' venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre mio, se tu m'ascolte, io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse le tue cogitazion, quantunque parve.
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Ciò che vedesti fu perché non scuse d'aprir lo core a l'acque de la pace che da l'etterno fonte son diffuse.
Non dimandai "Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace; ma dimandai per darti forza al piede: così frugar conviensi i pigri, lenti ad usar lor vigilia quando riede».