ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».
Virgilio mi venìa da quella banda de la cornice onde cader si puote, perché da nulla sponda s'inghirlanda; da l'altra parte m'eran le divote ombre, che per l'orribile costura premevan sì, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro e: «O gente sicura», incominciai, «di veder l'alto lume che 'l disio vostro solo ha in sua cura, se tosto grazia resolva le schiume di vostra coscïenza sì che chiaro per essa scenda de la mente il fiume, ditemi, ché mi fia grazioso e caro, s'anima è qui tra voi che sia latina; e forse lei sarà buon s'i' l'apparo».
«O frate mio, ciascuna è cittadina d'una vera città; ma tu vuo' dire che vivesse in Italia peregrina».
Questo mi parve per risposta udire più innanzi alquanto che là dov' io stava, ond' io mi feci ancor più là sentire.
Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', lo mento a guisa d'orbo in sù levava.
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«Spirto», diss' io, «che per salir ti dome, se tu se' quelli che mi rispondesti, fammiti conto o per luogo o per nome».
«Io fui sanese», rispuose, «e con questi altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda ch'io t'inganni, odi s'i' fui, com' io ti dico, folle, già discendendo l'arco d'i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co' loro avversari, e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia, letizia presi a tutte altre dispari, tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, gridando a Dio: "Omai più non ti temo!", come fé 'l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo, se ciò non fosse, ch'a memoria m'ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi se', che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, sì com' io credo, e spirando ragioni?».
«Li occhi», diss' io, «mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l'offesa 218
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fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è più la paura ond' è sospesa l'anima mia del tormento di sotto, che già lo 'ncarco di là giù mi pesa».
Ed ella a me: «Chi t'ha dunque condotto qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui ch'è meco e non fa motto.
E vivo sono; e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova di là per te ancor li mortai piedi».
«Oh, questa è a udir sì cosa nuova», rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami; però col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti, per quel che tu più brami, se mai calchi la terra di Toscana, che a' miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella gente vana che spera in Talamone, e perderagli più di speranza ch'a trovar la Diana; ma più vi perderanno li ammiragli».
CANTO XIV
[Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e molti altri.]
«Chi è costui che 'l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
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«Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo; domandal tu che più li t'avvicini, e dolcemente, sì che parli, acco'lo».
Così due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l'uno: «O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se'; ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu più mai».
E io: «Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr' esso rech' io questa persona: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, ché 'l nome mio ancor molto non suona».
«Se ben lo 'ntendimento tuo accarno con lo 'ntelletto», allora mi rispuose quei che diceva pria, «tu parli d'Arno».