di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso, cred' io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde
gridò: «Di questo cibo avrete caro».
Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Danïello 262
Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant' oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto; per ch'elli è glorïoso e tanto grande quanto per lo Vangelio v'è aperto».
CANTO XXIII
[Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.]
Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto più utilmente compartir si vuole».
Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l'andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
«O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», 263
Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo».
Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l'ossa la pelle s'informava.
Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.
Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.
Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».
Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.
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Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos' io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».
Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifà santa.