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di quanto per tua cura fosti pieno?».

Queste parole Stazio mover fenno

un poco a riso pria; poscia rispuose:

«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno.

Veramente più volte appaion cose

che danno a dubitar falsa matera

per le vere ragion che son nascose.

La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, forse per quella cerchia dov' io era.

Or sappi ch'avarizia fu partita

troppo da me, e questa dismisura

migliaia di lunari hanno punita.

E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand' io intesi là dove tu chiame, crucciato quasi a l'umana natura:

'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', voltando sentirei le giostre grame.

Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi così di quel come de li altri mali.

Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!

E sappie che la colpa che rimbecca 259

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca; però, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m'è incontrato».

«Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», disse 'l cantor de' buccolici carmi,

«per quello che Clïò teco lì tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta.

Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?».

Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti.

Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte,

quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenïe scende da ciel nova'.

Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, a colorare stenderò la mano.

Già era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata

per li messaggi de l'etterno regno; e la parola tua sopra toccata

si consonava a' nuovi predicanti; ond' io a visitarli presi usata.

260

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti; e mentre che di là per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette.

E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb' io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu'mi, lungamente mostrando paganesmo;

e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo.

Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio, dimmi dov' è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico».

«Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch'altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco; spesse fïate ragioniam del monte

che sempre ha le nutrice nostre seco.

Euripide v'è nosco e Antifonte,

Simonide, Agatone e altri piùe

Greci che già di lauro ornar la fronte.

Quivi si veggion de le genti tue

Antigone, Deïfile e Argia,

e Ismene sì trista come fue.

Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, e con le suore sue Deïdamia».

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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

Tacevansi ambedue già li poeti,

di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti;

e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in sù l'ardente corno, quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo».

Così l'usanza fu lì nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell' anima degna.

Elli givan dinanzi, e io soletto

Are sens