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Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, così facciano li uomini de' suoi.

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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s'affanna.

E come noi lo mal ch'avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto.

Nostra virtù che di legger s'adona, non spermentar con l'antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona.

Quest' ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro».

Così a sé e noi buona ramogna

quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo, simile a quel che talvolta si sogna, disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice,

purgando la caligine del mondo.

Se di là sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei c'hanno al voler buona radice?

Ben si de' loro atar lavar le note che portar quinci, sì che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote.

«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi tosto, sì che possiate muover l'ala, che secondo il disio vostro vi lievi, mostrate da qual mano inver' la scala si va più corto; e se c'è più d'un varco, quel ne 'nsegnate che men erto cala; ché questi che vien meco, per lo 'ncarco de la carne d'Adamo onde si veste, 206

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al montar sù, contra sua voglia, è parco».

Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu' io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; ma fu detto: «A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva.

E s'io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma,

onde portar convienmi il viso basso, cotesti, ch'ancor vive e non si noma, guardere' io, per veder s'i' 'l conosco, e per farlo pietoso a questa soma.

Io fui latino e nato d'un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se 'l nome suo già mai fu vosco.

L'antico sangue e l'opere leggiadre d'i miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando a la comune madre, ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante, ch'io ne mori', come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante.

Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno.

E qui convien ch'io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti».

Ascoltando chinai in giù la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li 'mpaccia, e videmi e conobbemi e chiamava,

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tenendo li occhi con fatica fisi

a me che tutto chin con loro andava.

«Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte ch'alluminar chiamata è in Parisi?».

«Frate», diss' elli, «più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l'onore è tutto or suo, e mio in parte.

Ben non sare' io stato sì cortese mentre ch'io vissi, per lo gran disio de l'eccellenza ove mio core intese.

Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

Oh vana gloria de l'umane posse!

com' poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l'etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi', pria che passin mill' anni? ch'è più corto spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto.

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