"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Perché, mi chiedevo, com’è che se la prendono tanto? Lila non è una loro sorella e nemmeno una loro cugina. Eppure si sentono in dovere di indignarsi, tutti e tre, più di Stefano, molto più di Stefano, come se fossero loro i veri fidanzati. Pasquale soprattutto mi parve ridicolo. Lui che solo poco tempo prima aveva detto quello che aveva detto, strillò a un certo punto, e lo sentimmo bene, con queste orecchie: «Io gli spacco la faccia a chillu strunz, la sta facendo passare per una zoccola. Ma se Stefano glielo permette, sicuramente non glielo permette il sottoscritto». Poi silenzio, si riunirono a noi e bighellonammo fiaccamente, io che chiacchieravo con Antonio, Carmela che stava tra suo fratello e Enzo. Dopo un po’ ci riaccompagnarono a casa. Li vidi allontanarsi, Enzo che era il più basso al centro e Antonio e Pasquale ai lati.

Il giorno dopo e nei giorni seguenti si fece un gran parlare del Millecento dei Solara. Era stato ridotto a pezzi. Non solo: i due fratelli erano stati selvaggiamente picchiati, ma non sapevano dire da chi. Giuravano di essere stati aggrediti in una stradina buia da almeno dieci persone, gente venuta da fuori. Ma io e Carmela sapevamo benissimo che gli aggressori erano solo tre e ci sentimmo molto preoccupate. Aspettammo le inevitabili ritorsioni per un giorno, due, tre. Ma evidentemente le cose erano state fatte per bene.

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Pasquale seguitò a fare il muratore, Antonio il meccanico, Enzo a girare con la carretta. I Solara, invece, per qualche tempo si mossero solo a piedi, malconci, un po’ smarriti, sempre insieme a quattro o cinque loro amici.

Ammetto che vederli in quelle condizioni mi rallegrò. Fui fiera dei miei amici. Insieme a Carmen e Ada criticai Stefano e anche Rino perché avevano fatto finta di niente. Poi passò il tempo, Marcello e Michele si comprarono una Giulietta verde e ricominciarono ad atteggiarsi a padroni del rione. Vivi e vegeti, più prepotenti di prima. Segno che forse Lila aveva ragione: la gente di quella risma bisognava combatterla conquistandosi una vita superiore, di quelle che loro non potevano nemmeno immaginare. Mentre facevo gli esami di quinto ginnasio, mi annunciò che in primavera, a poco più di sedici anni, si sarebbe sposata.

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48.

Quella notizia mi sconvolse. Quando Lila mi disse del suo matrimonio si era in giugno, a poche ore dagli orali. Cosa prevedibile, certo, ma ora che era stata fissata una data, 12 marzo, mi sembrò di sbattere per distrazione contro una porta. Feci pensieri meschini. Contai i mesi: nove. Forse nove mesi erano abbastanza lunghi perché l’astio perfido di Pinuccia, l’ostilità di Maria, le dicerie di Marcello Solara che continuavano a volare di bocca in bocca per tutto il rione come la Fama nell’ Eneide, logorassero Stefano portandolo alla rottura del fidanzamento. Mi vergognai di me, ma non ce la feci più a rintracciare un disegno coerente anche nella divaricazione dei nostri destini.

La concretezza di quella data rese concreto il bivio che avrebbe allontanato le nostre vite l’una dall’altra. E, quel che è peggio, diedi per certo che la sua sorte sarebbe stata migliore della mia. Sentii più forte che mai l’insignificanza della via degli studi, ebbi chiaro che l’avevo imboccata anni prima soltanto per apparire invidiabile a Lila. E invece lei, adesso, non attribuiva ai libri più nessun peso. Smisi di prepararmi per l’esame, non dormii la notte. Pensai alla mia poverissima esperienza amorosa: avevo baciato una volta Gino, avevo sfiorato appena le labbra di Nino, avevo subìto i fugaci e laidi contatti di suo padre: tutto qui. Lila invece da marzo, a sedici anni, avrebbe avuto un marito e nel giro di un anno, a diciassette, un figlio, e poi un altro ancora, e un altro, e un altro. Mi sentii un’ombra, piansi disperata.

Il giorno dopo andai svogliatamente a dare gli esami. Ma successe una cosa che mi fece sentire meglio. Il professor Gerace e la professoressa Galiani, che faceva parte della commissione, lodarono moltissimo il mio compito di italiano. Gerace in particolare disse che l’esposizione era ulteriormente migliorata. Volle leggere un passo al resto della commissione.

E solo ascoltandolo io mi resi conto di ciò che avevo cercato di fare in quei mesi ogni volta che mi capitava di scrivere: liberarmi dei miei toni artificiosi, delle frasi troppo rigide; tentare una scrittura fluida e trascinante come quella di Lila nella lettera di Ischia. Quando sentii le mie parole dentro la voce del

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professore, mentre la professoressa Galiani ascoltava e acconsentiva in silenzio, mi resi conto di esserci riuscita. Naturalmente non era il modo di scrivere di Lila, era il mio. E sembrava ai miei insegnanti qualcosa di veramente fuori del comune.

Fui promossa in prima liceo con tutti dieci, ma a casa mia nessuno se ne stupì o mi festeggiò. Vidi che erano soddisfatti, questo sì, e ne fui contenta, ma non diedero all’evento nessun peso. Mia madre, anzi, trovò il mio successo scolastico del tutto naturale, mio padre mi disse di andare subito dalla maestra Oliviero per spingerla a procurarsi per tempo i libri del prossimo anno. Mentre uscivo, mia madre gridò: «E se ti vuole mandare di nuovo a Ischia, dille che io non sto bene e che mi devi aiutare in casa».

La maestra mi lodò, ma svogliatamente, un po’ perché ormai dava anche lei per scontata la mia bravura, un po’ perché non era in buona salute, il male che aveva in bocca le dava molto fastidio. Non accennò mai al mio bisogno di riposo, a sua cugina Nella, a Ischia. Invece, a sorpresa, attaccò a parlare di Lila. L’aveva vista per strada, da lontano. Stava col fidanzato, disse, il salumiere. Poi aggiunse una frase che ricorderò sempre: «La bellezza che Cerullo aveva nella testa fin da piccola non ha trovato sbocco, Greco, e le è finita tutta in faccia, nel petto, nelle cosce e nel culo, posti dove passa presto ed è come se non ce l’avessi mai avuta».

Non le avevo mai sentito dire una parolaccia, da quando la conoscevo. In quell’occasione disse «culo» e poi borbottò: «Scusa». Ma non fu quello, che mi colpì. Fu il rammarico, come se la maestra si stesse rendendo conto che qualcosa di Lila s’era sciupato proprio perché lei, come maestra, non l’aveva protetto e sviluppato bene. Mi sentii la sua alunna meglio riuscita e andai via sollevata.

L’unico a festeggiarmi senza mezzi termini fu Alfonso, promosso anche lui, con tutti sette. Sentii che la sua era un’ammirazione genuina e questo mi fece piacere. Davanti ai quadri, preso da entusiasmo, in presenza di nostri compagni e dei loro genitori, fece una cosa sconveniente, come se si fosse dimenticato che ero femmina e non doveva sfiorarmi: mi strinse forte contro di sé, mi baciò su una guancia, un bacio rumoroso. Poi si confuse, mi lasciò subito, disse scusa, e tuttavia non si contenne, gridò: «Tutti dieci, impossibile, tutti dieci». Tornando a casa parlammo molto del matrimonio di suo fratello, di Lila. Poiché mi sentivo particolarmente a mio agio, gli chiesi per la prima volta cosa pensasse della sua futura cognata. Prese tempo prima di rispondermi. Poi disse:

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«Ti ricordi la gara che ci fecero fare a scuola?».

«E chi se la può dimenticare?».

«Io ero sicuro di vincere, avevate tutti paura di mio padre».

«Anche Lina: infatti per un po’ cercò di non batterti».

«Sì, ma poi decise di vincere e mi umiliò. Sono tornato a casa piangendo».

«È brutto perdere».

«Non per quello: mi sembrò insopportabile che tutti fossero terrorizzati da mio padre, io per primo, e quella bambina no».

«Te ne innamorasti?».

«Scherzi? Mi ha sempre messo in soggezione».

«In che senso?».

«Nel senso che mio fratello ha proprio un bel coraggio a sposarsela».

«Che dici?».

«Dico che sei meglio tu e che se fossi stato io a scegliere, mi sarei sposato te».

Anche questo mi fece piacere. Scoppiammo a ridere, ci salutammo che ancora ridevamo. Lui era condannato a passare l’estate in salumeria, io, per decisione di mia madre più che di mio padre, dovevo trovarmi un lavoro per l’estate. Promettemmo di vederci, di andare almeno una volta al mare insieme. Non successe.

Nei giorni seguenti feci giri svogliati per il rione. Chiesi a don Paolo, il droghiere lungo lo stradone, se aveva bisogno di una commessa. Niente.

Chiesi al giornalaio: non servivo neanche a lui. Passai dalla cartolaia, si mise a ridere: aveva bisogno, sì, ma non adesso; dovevo tornare in autunno, quando ricominciavano le scuole. Feci per andarmene e lei mi richiamò.

Disse:

«Tu sei una ragazza molto seria, Lenù, di te mi fido: saresti capace di portarmi le bambine a fare i bagni?».

Uscii dal negozio veramente felice. La cartolaia mi avrebbe pagato – e pagato bene – se portavo al mare le sue tre bambine per tutto il mese di luglio e i primi dieci giorni di agosto. Mare, sole e denaro. Dovevo andare ogni giorno in un posto tra Mergellina e Posillipo di cui non sapevo nulla, aveva un nome straniero, si chiamava Sea Garden. Mi diressi verso casa eccitata come se la mia vita avesse avuto una svolta decisiva. Avrei guadagnato soldi per i miei genitori, avrei fatto i bagni, sarei diventata liscia e dorata al sole come l’estate a Ischia. Com’è tutto dolce, pensai, quando la giornata è bella e ogni cosa buona pare stia aspettando solo te.

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Feci pochi passi e quell’impressione di ore fortunate si consolidò. Mi raggiunse Antonio, in tuta, sporco di grasso. Ne fui contenta, chiunque avessi incontrato in quel momento di allegria sarebbe stato bene accolto. Mi aveva vista passare e m’era corso dietro. Gli raccontai subito della cartolaia, dovette leggermi in faccia che quello era un momento felice. Per mesi avevo sgobbato sentendomi sola, brutta. Pur essendo sicura di amare Nino Sarratore, l’avevo evitato sempre e non ero andata a vedere nemmeno se era stato promosso e con quali voti. Lila stava per compiere un balzo definitivo oltre la mia vita, non ce l’avrei fatta più a tenerle dietro. Ma ora mi sentivo bene e volevo sentirmi ancora meglio. Quando Antonio, intuendo che ero nella disposizione giusta, mi chiese se volevo fidanzarmi con lui, gli dissi di sì subito, anche se amavo un altro, anche se non sentivo per lui nient’altro che un po’ di simpatia. Averlo per fidanzato, lui, grande, coetaneo di Stefano, lavoratore, mi sembrò una cosa non diversa dalla promozione con tutti dieci, dal compito di portare, remunerata, le figlie della cartolaia al Sea Garden.

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49.

Cominciò il mio lavoro, il mio fidanzamento. La cartolaia mi fece una sorta di abbonamento e io ogni mattina attraversavo la città con le tre bambine, negli autobus affollati, e le portavo in quel luogo coloratissimo, ombrelloni, mare blu, piattaforme di cemento, studenti, donne agiate con molto tempo libero, donne vistose con facce voraci. Trattavo con gentilezza i bagnini che provavano ad attaccare bottone. Badavo alle bambine, facevo lunghi bagni con loro sfoggiando il costume che l’anno prima mi aveva cucito Nella. Le nutrivo, ci giocavo, le lasciavo bere in eterno allo zampillo di una fontanella di pietra stando attenta a che non scivolassero e si spaccassero i denti sulla vaschetta.

Tornavamo al rione nel tardo pomeriggio. Restituivo le bambine alla cartolaia, correvo all’appuntamento segreto con Antonio, bruciata di sole, salata d’acqua di mare. Andavamo agli stagni per vie secondarie, avevo paura di essere vista da mia madre e forse ancor più dalla maestra Oliviero. I primi baci veri li scambiai con lui. Gli concessi presto di toccarmi i seni e tra le gambe. Io stessa una sera gli strinsi il pene nascosto dentro i calzoni, teso, grosso, e quando lui lo estrasse, glielo tenni volentieri in una mano mentre ci baciavamo. Accettai quelle pratiche con due domande nitidissime in mente.

La prima era: Lila fa queste stesse cose con Stefano? La seconda era: il piacere che provo con questo ragazzo è lo stesso che ho provato la sera che Donato Sarratore mi ha toccata? In entrambi i casi Antonio finiva per essere solo un fantasma utile per evocare da un lato gli amori tra Lila e Stefano, dall’altro l’emozione forte, difficile da mettere in ordine, che mi aveva procurato il padre di Nino. Ma non mi sentii mai in colpa. Mi era così grato, mi manifestava una tale assoluta dipendenza per quei pochi contatti agli stagni, che presto mi convinsi che fosse lui in debito con me, che il piacere che gli davo fosse di gran lunga superiore a quello che mi dava lui.

A volte, la domenica, accompagnava me e le bambine al Sea Garden.

Spendeva molti soldi con finta disinvoltura, pur guadagnandone pochissimi, e per di più odiava bruciarsi al sole. Ma lo faceva per me, solo per starmi

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accanto, senza nessun risarcimento immediato, visto che per tutto il giorno non c’era modo di baciarci o toccarci. E per di più intratteneva le bambine con buffonerie da clown e tuffi da atleta. Mentre lui giocava con loro io mi sdraiavo al sole a leggere e mi scioglievo nelle pagine come una medusa.

In una di quelle occasioni levai per un attimo lo sguardo e vidi una ragazza alta, sottile, elegante, con un bellissimo due pezzi rosso. Era Lila. Abituata ormai ad avere sempre addosso lo sguardo degli uomini, si muoveva come se in quel posto affollato non ci fosse nessuno, nemmeno il giovane bagnino che la precedeva per accompagnarla all’ombrellone. Non mi vide e io non seppi se chiamarla. Portava occhiali da sole, sfoggiava una borsa di stoffa coloratissima. Non le avevo ancora detto del mio lavoro e nemmeno di Antonio: è probabile che temessi il suo giudizio sia sull’uno che sull’altro.

Aspettiamo che mi chiami lei, pensai e ritornai con lo sguardo al libro, ma senza riuscire più a leggere. Tuttavia presto guardai di nuovo nella sua direzione. Il bagnino le aveva aperto la sdraio, si era seduta al sole. Intanto stava arrivando Stefano, bianchissimo, un costume blu, in mano il portafogli, l’accendino, le sigarette. Baciò Lila sulle labbra come i principi fanno con le belle addormentate, si sedette a sua volta su una sdraio.

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