«Sono io che ho bisogno di te» disse, e si protese, mi baciò sulla bocca senza la leggerezza del figlio, schiudendomi le labbra con la lingua.
Restai immobile.
Lui scostò appena il lenzuolo seguitando a baciarmi con cura, con passione, e mi cercò il petto con la mano, me lo accarezzò sotto la camicia.
Poi mi lasciò, scese tra le mie gambe, mi premette forte due dita sopra le mutandine. Non dissi, non feci niente, ero atterrita da quel comportamento, dall’orrore che mi faceva, dal piacere che tuttavia provavo. I suoi baffi mi pungevano il labbro superiore, la sua lingua era ruvida. Si staccò dalla mia bocca piano, allontanò la mano.
«Domani sera ci facciamo una bella passeggiata io e te sulla spiaggia»
disse un po’ roco, «ti voglio molto bene e lo so che anche tu ne vuoi tantissimo a me. È vero?».
Non dissi niente. Lui mi sfiorò di nuovo le labbra con le labbra, mormorò buonanotte, si sollevò e uscì dalla cucina. Io seguitai a non muovermi, non so per quanto tempo. Per quanto cercassi di allontanare la sensazione della sua lingua, delle sue carezze, della pressione della sua mano, non ci riuscivo.
Nino aveva voluto avvisarmi, sapeva che sarebbe successo? Provai un odio incontenibile per Donato Sarratore e disgusto per me, per il piacere che mi era rimasto nel corpo. Per quanto oggi possa sembrare inverosimile, da quando avevo memoria fino a quella sera non mi ero mai data piacere, non lo conoscevo, sentirmelo addosso mi sorprese. Restai nella stessa posizione non so per quante ore. Poi, alle prime luci, mi riscossi, raccolsi tutte le mie cose, disfeci il letto, scrissi due righe di ringraziamento per Nella e me ne andai.
L’isola era quasi senza suoni, il mare fermo, solo gli odori erano intensissimi. Presi, coi soldi contati che mi aveva lasciato mia madre più di un mese prima, il primo vaporetto in partenza. Appena il battello si mosse e l’isola, coi suoi colori teneri di primo mattino, fu abbastanza lontana, pensai che avevo finalmente qualcosa da raccontare a cui Lila non avrebbe potuto opporre nulla di altrettanto memorabile. Ma seppi subito che il disgusto nei confronti di Sarratore e il ribrezzo che io stessa mi facevo mi avrebbero impedito di aprir bocca. Infatti questa è la prima volta che cerco le parole per quella fine inattesa della mia vacanza.
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36.
Trovai Napoli immersa in una maleodorante, disfatta calura. Mia madre, senza dire una sola parola per com’ero diventata – niente acne, nera di sole –
mi rimproverò perché ero tornata prima del previsto.
«Che hai fatto» disse, «ti sei comportata male, l’amica della maestra t’ha cacciata?».
Andò diversamente con mio padre, che fece gli occhi lucidi e mi riempì di complimenti tra i quali, ripetuto cento volte, spiccava: «Madonna, che bella figlia che ho». Quanto ai miei fratelli, dissero con un certo disprezzo:
«Sembri una negra».
Mi guardai allo specchio e anch’io mi meravigliai: il sole mi aveva resa di un biondo splendente, ma il viso, le braccia, le gambe erano come dipinti d’oro scuro. Finché ero stata immersa nei colori di Ischia, sempre tra facce bruciate, la mia trasformazione mi era sembrata adeguata all’ambiente; ora, una volta restituita al contesto del rione, dove ogni viso, ogni via erano rimasti di un pallore malato, mi parve eccessiva, quasi un’anomalia. La gente, le palazzine, lo stradone trafficatissimo e polveroso, mi diedero l’impressione di una foto mal stampata come quelle dei giornali.
Appena potei corsi a cercare Lila. La chiamai dal cortile, si affacciò, sbucò dal portone. Mi abbracciò, mi baciò, mi riempì di complimenti come non aveva mai fatto, tanto che fui travolta da tutto quell’affetto così esplicito. Era la stessa e tuttavia, in poco più di un mese, era ulteriormente cambiata. Non sembrava più una ragazza ma una donna, una donna di almeno diciotto anni, età che allora mi sembrava avanzata. I vecchi abiti le stavano corti e stretti, come se ci fosse cresciuta dentro nel giro di pochi minuti, e le stringevano il corpo più del lecito. Era ancora più alta, aveva spalle dritte, era sinuosa. E il viso pallidissimo sul collo sottile mi parve di una delicata, anomala bellezza.
Sentii che era nervosa, in strada si guardò intorno, alle spalle, più volte, ma non mi diede spiegazioni. Disse solo: «Vieni con me» e volle che l’accompagnassi alla salumeria di Stefano. Aggiunse, prendendomi sottobraccio: «È una cosa che posso fare solo con te, meno male che sei
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tornata: pensavo di dover aspettare fino a settembre».
Non avevamo mai fatto quel percorso verso i giardinetti così strette l’una all’altra, così affiatate, così felici di esserci ritrovate. Mi raccontò che le cose peggioravano ogni giorno di più. Proprio la sera prima Marcello era arrivato con dolci e spumante e le aveva regalato un anello tempestato di brillanti. Lei lo aveva accettato, se l’era messo al dito per evitare problemi in presenza dei genitori, ma poco prima che lui andasse via, sulla porta, glielo aveva restituito in malo modo. Marcello aveva protestato, l’aveva minacciata come ormai faceva sempre più spesso, poi era scoppiato a piangere. Fernando e Nunzia s’erano accorti subito che qualcosa non andava. Sua madre s’era affezionata a Marcello, le piacevano le cose buone che ogni sera lui portava in casa, era fiera di essere proprietaria di una televisione; e Fernando si sentiva come se avesse smesso di tribolare, perché, grazie alla parentela prossima coi Solara, poteva guardare al futuro senza ansie. Così, appena Marcello era andato via, entrambi l’avevano tormentata più del solito per sapere cosa stava succedendo. Conseguenza: per la prima volta Rino, dopo tanto tanto tempo, l’aveva difesa, aveva gridato che se sua sorella non voleva un battilocchio come Marcello, era suo diritto sacrosanto rifiutarlo e che, se loro insistevano a darglielo, lui, lui in persona, avrebbe bruciato tutto, la casa e la calzoleria e se stesso e l’intera famiglia. Padre e figlio erano venuti alle mani, Nunzia s’era messa in mezzo, s’era svegliato tutto il vicinato. Non solo: Rino s’era buttato sul letto agitatissimo, era bruscamente crollato nel sonno, e un’ora dopo aveva avuto un altro dei suoi episodi di sonnambulismo. L’avevano trovato in cucina mentre accendeva un fiammifero dietro l’altro e li passava accanto alla chiavetta del gas come per vedere se c’erano perdite. Nunzia aveva svegliato Lila atterrita, le aveva detto: «Rino ci vuole davvero bruciare vivi a tutti» e lei era corsa a vedere e aveva rassicurato la madre: Rino stava dormendo e nel sonno, a differenza di quando era sveglio, si preoccupava davvero che non ci fossero fughe di gas.
Lo aveva riaccompagnato a letto e l’aveva messo a dormire.
«Non ce la faccio più» concluse, «tu non sai cosa sto passando, devo uscire da questa situazione».
Si strinse a me come se potessi caricarla di energia.
«Tu stai bene» disse, «a te va bene tutto: mi devi aiutare».
Le risposi che poteva contare su di me per ogni cosa e lei sembrò sollevata, mi strinse il braccio, sussurrò:
«Guarda».
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Vidi da lontano una sorta di macchia rossa che irraggiava luce.
«Cos’è?».
«Non lo vedi?».
Non vedevo bene.
«È la macchina nuova che s’è comprato Stefano».
L’automobile era parcheggiata davanti alla salumeria, che era stata ampliata, adesso aveva due ingressi, era affollatissima. Le clienti, in attesa di essere servite, lanciavano sguardi ammirati a quel simbolo di benessere e di prestigio: nel rione non s’era mai vista una vettura del genere, tutta vetri e metallo, col tetto che si apriva. Una macchina da gran signori, niente a che vedere col Millecento dei Solara.
Ci girai intorno mentre Lila se ne stava all’ombra e sorvegliava la strada come se si aspettasse da un momento all’altro una violenza. Sulla soglia della salumeria si affacciò Stefano col camice tutto unto, la testa grande e la fronte alta che davano un’idea di sproporzione, ma non spiacevole. Attraversò la strada, mi salutò con cordialità, disse:
«Come stai bene, sembri un’attrice».
Anche lui stava bene: aveva preso sole come me, forse eravamo gli unici in tutto il rione ad avere un’aria così sana. Gli dissi: «Quanto sei nero».
«Mi sono preso una settimana di ferie».