"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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34.

Poi, a fine agosto, quando stava per esaurirsi quel periodo straordinario, accaddero due cose importanti, di colpo, nella stessa giornata. Era il 25, me lo ricordo con precisione perché in quel giorno cadeva il mio compleanno. Mi alzai, preparai la colazione per tutti, a tavola dissi: «Oggi faccio quindici anni» e già mentre lo dicevo mi ricordai che Lila li aveva compiuti l’11 ma, presa da tante emozioni, non me n’ero ricordata. Sebbene l’uso volesse che si festeggiassero soprattutto gli onomastici – i compleanni allora erano considerati irrilevanti –, i Sarratore e Nella

insistettero per fare una festicciola, in serata. Ne fui contenta. Loro si andarono a preparare per il mare, io mi misi a sparecchiare, quand’ecco che arrivò il postino.

Mi affacciai alla finestra, il postino disse che c’era una lettera per Greco. Andai giù di corsa col batticuore. Escludevo che i miei genitori mi avessero scritto. Era una lettera di Lila, di Nino? Era di Lila.

Lacerai la busta. Ne vennero fuori cinque fogli fittissimi, li divorai, ma non capii quasi niente di ciò che lessi. Oggi può sembrare anomalo, eppure andò proprio così: prima ancora di essere travolta dal contenuto, mi colpì che la scrittura conteneva la voce di Lila. Non solo. Fin dalle prime righe mi venne in mente La fata blu, l’unico suo testo che avessi letto prima di quello a parte i compitini delle elementari, e capii cosa, all’epoca, mi era piaciuto tanto.

C’era, nella Fata blu, la stessa qualità che mi colpiva adesso: Lila sapeva parlare attraverso la scrittura; a differenza di me quando scrivevo, a differenza di Sarratore nei suoi articoli e nelle poesie, a differenza anche di molti scrittori che avevo letto e che leggevo, lei si esprimeva con frasi sì curate, sì senza un errore pur non avendo continuato a studiare, ma – in più –

non lasciava traccia di innaturalezza, non si sentiva l’artificio della parola scritta. Leggevo e intanto vedevo, sentivo lei. La voce incastonata nella scrittura mi travolse, mi rapì ancor più di quando discutevamo a tu per tu: era

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del tutto depurata dalle scorie di quando si parla, dalla confusione dell’orale; aveva l’ordine vivo che mi immaginavo dovesse toccare al discorso se si era stati così fortunati da nascere dalla testa di Zeus e non dai Greco, dai Cerullo.

Mi vergognai delle pagine infantili che le avevo scritto, dei toni eccessivi, delle frivolezze, dell’allegria finta, del dolore finto. Chissà Lila cosa aveva pensato di me. Provai disprezzo e rancore per il professor Gerace che mi aveva illusa mettendomi nove in italiano. Quella lettera ebbe come primo effetto di farmi sentire, a quindici anni, nel giorno del mio compleanno, un’imbrogliona.

La scuola, su di me, aveva preso un abbaglio e la prova era lì, nella lettera di Lila.

Poi, piano piano, arrivarono anche i contenuti. Lila mi faceva gli auguri per il mio compleanno. Non mi aveva mai scritto perché era contenta che me la spassassi al sole, che mi trovassi bene con i Sarratore, che amassi Nino, che mi piacesse tanto Ischia, la spiaggia dei Maronti, e non voleva guastarmi la vacanza con le sue brutte storie. Però adesso aveva sentito l’urgenza di rompere il silenzio. Subito dopo la mia partenza Marcello Solara, col consenso di Fernando, aveva cominciato a presentarsi a cena tutte le sere. Arrivava alle venti e trenta e se ne andava alle ventidue e trenta esatte.

Portava sempre qualcosa: paste, cioccolatini, zucchero, caffè. Lei non toccava niente, non gli dava alcuna confidenza, lui la guardava in silenzio. Dopo la prima settimana di quello strazio, visto che Lila faceva come se lui non ci fosse, aveva deciso di stupirla. S’era presentato di mattina in compagnia di un tipo grosso, tutto sudato, che aveva depositato in camera da pranzo un’enorme scatola di cartone. Dalla scatola era uscito un oggetto di cui tutti sapevamo, ma che pochissimi nel rione avevano in casa: una televisione, un apparecchio, cioè, con uno schermo su cui si vedevano immagini, proprio come al cinema, ma che non arrivavano da un proiettore bensì dall’aria, e che dentro aveva un tubo misterioso che si chiamava catodico. Per via di questo tubo, menzionato di continuo dall’uomo grosso e sudato, l’apparecchio non aveva funzionato per giorni. Poi, prova e riprova, s’era avviato e ora mezzo rione, compresi mia madre, mio padre e i miei fratelli, andava a casa Cerullo a vedere quel miracolo. Rino no. Stava meglio, la febbre gli era

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definitivamente passata, ma non rivolgeva più la parola a Marcello. Quando lui si presentava, cominciava a dir male della televisione e dopo un po’ o se ne andava a dormire senza toccare cibo o usciva e girovagava fino a notte fonda con Pasquale e Antonio. Lila invece diceva di amare la televisione. Le piaceva soprattutto vederla insieme con Melina, che compariva tutte le sere e se ne stava a lungo in silenzio, concentratissima. Era l’unico momento di pace. Per il resto, tutte le rabbie si scaricavano su di lei: le rabbie di suo fratello perché lo aveva abbandonato al suo destino di servo del loro padre mentre lei si avviava a un matrimonio che le avrebbe fatto fare la signora; le rabbie di Fernando e di Nunzia perché non era gentile con Solara, anzi lo trattava a pesci in faccia; infine le rabbie di Marcello che, senza che lei lo avesse mai accettato, si sentiva sempre più fidanzato, anzi padrone, e tendeva a passare dalla devozione muta a tentativi di baci, a domande sospettose su dove andava durante il giorno, chi vedeva, se aveva avuto altri fidanzati, se l’aveva anche solo sfiorata qualcuno. Poiché lei non gli rispondeva, o peggio ancora lo prendeva in giro raccontandogli di baci e abbracci con fidanzati inesistenti, lui una sera le aveva detto serio in un orecchio: «Tu mi sfotti, ma ti ricordi di quando mi hai minacciato col trincetto? Bene, io se so che ti piace un altro, tienilo a mente, non mi limito a minacciarti, t’ammazzo e basta».

Così lei non sapeva come uscire da quella situazione e continuava a portare la sua arma addosso per ogni evenienza. Ma era terrorizzata. Scriveva, nelle ultime pagine, di sentirsi intorno tutto il male del rione.

Anzi, buttava lì oscuramente: male e bene sono mescolati e si rinforzano a vicenda.

Marcello, a rifletterci, era veramente una buona sistemazione, ma il buono sapeva di cattivo e il cattivo sapeva di buono, un amalgama che le toglieva il fiato. Qualche sera prima le era successa una cosa che le aveva fatto veramente paura. Marcello se n’era andato, la televisione era spenta, la casa era vuota, Rino era fuori, i genitori si stavano mettendo a letto. Lei, insomma, stava sola in cucina a fare i piatti ed era stanca, proprio senza forze, quando a un certo punto c’era stato uno scoppio. S’era girata di scatto e s’era accorta che era esplosa la pentola grande di rame. Così, da sola. Era appesa al chiodo dove normalmente si trovava, ma al centro aveva un grande squarcio e i bordi erano sollevati e ritorti e la pentola stessa s’era tutta sformata, come se non riuscisse più a conservare la sua apparenza di pentola. La madre era accorsa

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in camicia da notte e l’aveva incolpata di averla fatta cadere e di averla rovinata. Ma una pentola di rame, anche se cade, non si spacca e non si deforma a quel modo. “È questo tipo di cose” concludeva Lila, “che mi spaventa. Più di Marcello, più di chiunque. E sento che devo trovare una soluzione, se no, una cosa dietro l’altra, si rompe tutto, tutto, tutto”. Mi salutava, mi faceva ancora molti auguri e, anche se desiderava il contrario, anche se non vedeva l’ora di rivedermi, anche se aveva urgente bisogno del mio aiuto, mi augurava di restarmene a Ischia con la gentile signora Nella e di non tornare al rione mai più.

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35.

La lettera mi turbò moltissimo. Il mondo di Lila, come al solito, si sovrappose velocemente al mio. Tutto ciò che le avevo scritto tra luglio e agosto mi sembrò banale, fui presa dalla smania di redimermi. Non andai al mare, provai subito a risponderle con una lettera seria, che avesse l’andamento essenziale, netto e insieme colloquiale della sua. Ma se le altre lettere mi erano venute facili – buttavo giù pagine e pagine in pochi minuti, senza mai correggere – quella la scrissi, la riscrissi, la riscrissi ancora, e tuttavia l’odio di Nino nei confronti del padre, il ruolo che aveva avuto la vicenda di Melina nella nascita di quel brutto sentimento, tutto il rapporto con la famiglia Sarratore, persino la mia ansia per ciò che le stava accadendo, mi vennero male. Donato, che nella realtà era un uomo notevole, sulla pagina risultò un padre di famiglia banale; e io stessa, per quel che riguardava Marcello, fui capace soltanto di consigli superficiali. Alla fine mi sembrò vero soltanto il disappunto perché lei aveva la televisione in casa e io no.

Insomma non riuscii a risponderle, pur privandomi del ma-re, del sole, del piacere di stare con Ciro, con Pino, con Clelia, con Lidia, con Marisa, con Sarratore. Meno male che Nella, da un certo punto in poi, venne a tenermi compagnia sul terrazzo portandomi un’orzata. Meno male che, quando tornarono dal mare, i Sarratore si rammaricarono perché me n’ero stata a casa e ripresero a festeggiarmi. Lidia volle preparare lei stessa una torta zeppa di crema pasticcera, Nella aprì una bottiglia di vermouth, Donato attaccò a cantare canzoni napoletane, Marisa mi regalò un cavalluccio marino di stoppa che aveva comprato per sé al Porto la sera prima.

Mi rasserenai, ma intanto non riuscivo a cacciarmi via dalla testa Lila in mezzo ai guai mentre io stavo così bene, ero così festeggiata. Dissi in un modo un po’ drammatico che avevo ricevuto una lettera di una mia amica, che quella mia amica aveva bisogno di me e che quindi pensavo di andarmene prima del previsto. «Dopodomani al massimo» annunciai, ma senza crederci troppo. In effetti parlai solo per sentire come Nella si dispiaceva, come Lidia diceva che Ciro ne avrebbe sofferto molto, come

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Marisa si disperava, come Sarratore esclamava desolato: «E noi come facciamo senza di te?». Tutte cose che mi commossero, resero ancora più piacevole la mia festa.

Poi Pino e Ciro cominciarono a sonnecchiare e Lidia e Donato li portarono a dormire. Marisa mi aiutò a lavare i piatti, Nella mi disse che se volevo riposare un po’ di più si sarebbe alzata lei per preparare la colazione.

Protestai, quello era compito mio. Tutti, a uno a uno, si ritirarono, restai sola.

Feci il mio lettino nel solito angolo, studiai la situazione per vedere se c’erano scarafaggi, se c’erano zanzare. Lo sguardo mi cadde sulle pentole di rame.

Com’era suggestiva la scrittura di Lila, guardai le pentole con crescente inquietudine. Mi ricordai che le era piaciuto sempre il loro splendore, quando le lavava si dedicava a lustrarle con grande cura. Lì, non a caso, quattro anni prima, aveva collocato lo schizzo di sangue sprizzato dal collo di don Achille quando era stato pugnalato. Lì ora aveva deposto quella sua sensazione di minaccia, l’angoscia per la scelta difficile che aveva davanti, facendone esplodere una a mo’ di segnale, come se la sua forma avesse deciso bruscamente di cedere. Sapevo immaginarmi quelle cose senza di lei? Sapevo dare una vita a ogni oggetto, lasciarlo torcere all’unisono con la mia? Spensi la luce. Mi spogliai e mi misi a letto con la lettera di Lila e il segnalibro azzurro di Nino, le cose più preziose che in quel momento mi pareva di avere.

Dal finestrone pioveva la luce bianca della luna. Baciai il segnalibro come facevo tutte le sere, provai a rileggere nel chiarore debole la lettera della mia amica. Brillavano le pentole, scricchiolava il tavolo, pesava greve il soffitto, premeva ai lati l’aria notturna e il mare. Tornai a sentirmi umiliata dalla capacità di scrittura di Lila, da ciò che lei sapeva plasmare e io no, mi si appannarono gli occhi. Ero felice, certo, che lei fosse così brava anche senza scuola, senza i libri della biblioteca, ma quella felicità mi rendeva colpevolmente infelice.

Poi sentii dei passi. Vidi entrare in cucina l’ombra di Sarratore, scalzo, col suo pigiama blu. Mi tirai addosso il lenzuolo. Andò al rubinetto, prese un bicchiere d’acqua, bevve. Restò in piedi per qualche secondo davanti al lavandino, posò il bicchiere, si mosse verso il mio letto. Mi si accucciò di lato, con i gomiti appoggiati sul bordo del lenzuolo.

«Lo so che sei sveglia» disse.

«Sì».

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«Non ci pensare alla tua amica, resta».

«Sta male, ha bisogno di me».

Are sens

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