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E parlava in un italiano da libro stampato, volendo. E leggeva e ragionava di tutto ed era sensibile alle grandi questioni della condizione umana, mentre Stefano viveva chiuso nella sua salumeria, parlava quasi esclusivamente in

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dialetto, non era andato oltre le scuole di avviamento, alla cassa del negozio ci teneva la mamma che faceva i conti meglio di lui e, pur essendo di buon carattere, era sensibile soprattutto ai giri fruttuosi del denaro. Tuttavia, per quanto la passione mi divorasse, per quanto vedessi con chiarezza tutto il prestigio che avrei acquistato agli occhi di Lila legandomi a lui, per la seconda volta da quando l’avevo visto e me n’ero innamorata non me la sentii di stabilire un rapporto. La motivazione mi sembrò ben più robusta di quella dei tempi dell’infanzia. Vederlo mi faceva venire in mente subito Donato Sarratore, anche se non si assomigliavano affatto. E il ribrezzo, la rabbia che mi suscitava il ricordo di ciò che mi aveva fatto suo padre senza che io fossi stata capace di respingerlo si allungavano fino a lui. Certo, lo amavo.

Desideravo parlargli, passeggiare con lui, e a volte pensavo, arrovellandomi: perché ti comporti così, il padre non è il figlio, il figlio non è il padre, fa’

come ha fatto Stefano coi Peluso. Ma non ci riuscivo. Appena mi immaginavo di baciarlo, sentivo la bocca di Donato, e un’onda di piacere e ribrezzo confondeva padre e figlio in un’unica persona.

A complicare ulteriormente la situazione ci fu un episodio che mi allarmò.

Ormai Alfonso e io avevamo preso l’abitudine di tornare a casa a piedi.

Andavamo fino a piazza Nazionale e poi raggiungevamo corso Meridionale.

Era una lunga passeggiata ma parlavamo di compiti, di professori, dei nostri compagni, ed era piacevole. Quand’ecco che una volta, poco dopo gli stagni, all’imbocco dello stradone, mi girai e mi sembrò di vedere sul terrapieno della ferrovia, in divisa da controllore, Donato Sarratore.

Sussultai di rabbia e di orrore, girai subito lo sguardo. Quando tornai nuovamente a guardare, non c’era più.

Vera o falsa che fosse quell’apparizione, mi restò impresso il rumore che mi aveva fatto il cuore in petto, come uno sparo, e non so perché mi tornò in mente il brano della lettera di Lila sul rumore che aveva fatto la pentola di rame squarciandosi. Quel rumore tornò identico già il giorno dopo, al solo intravedere Nino.

Allora, spaventata, mi acquattai nell’affetto per Alfonso, e sia all’entrata che all’uscita mi tenni sempre vicino a lui. Appena compariva la figura allampanata del ragazzo che amavo, mi rivolgevo al figlio minore di don

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Achille come se avessi cose urgentissime da dirgli e ci allontanavamo chiacchierando.

Fu insomma un periodo confuso, avrei voluto stringermi a Nino e invece badavo a stare incollata ad Alfonso. Anzi, per timore che si annoiasse e mi lasciasse per altre compagnie, mi comportai sempre in modo molto gentile con lui, a volte gli facevo persino voci flautate. Ma appena mi rendevo conto che rischiavo di incoraggiare una sua propensione per me, cambiavo tono.

“Se mi fraintende e mi dichiara il suo amore?” mi preoccupavo. Sarebbe stato imbarazzante, avrei dovuto respingerlo: Lila, mia coetanea, s’era fidanzata con un uomo fatto quale era Stefano, e sarebbe stato umiliante mettermi con un ragazzino, il fratello piccolo del suo promesso sposo. Tuttavia la testa disegnava ghirigori incontrollati, fantasticavo. Una volta che tornavo con Alfonso per corso Meridionale e lo sentivo accanto come uno scudiero che mi scortava tra i mille pericoli della città, mi sembrò bello che a due Carracci, Stefano e lui, fosse toccata la funzione di proteggere, anche se in forme diverse, Lila e me dal male nerissimo del mondo, da quello stesso male che avevamo sperimentato per la prima volta proprio salendo su per la scala che portava a casa loro, quando eravamo andate a riprenderci le bambole che ci aveva rubato il padre.

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42.

Mi piaceva scoprire nessi di quel tipo, specie se riguardavano Lila.

Tracciavo linee tra momenti e fatti distanti tra loro, stabilivo convergenze e divergenze. In quel periodo diventò un esercizio quotidiano: tanto io ero stata bene a Ischia, tanto Lila era stata male nella desolazione del rione; tanto io avevo sofferto abbandonando l’isola, tanto lei s’era sentita sempre più felice.

Era come se, per una cattiva magia, la gioia o il dolore dell’una presupponessero il dolore o la gioia dell’altra. Anche l’aspetto fisico, mi sembrò, partecipava a quell’altalena. A Ischia mi ero sentita bella e l’impressione non era sbiadita dopo il ritorno a Napoli, anzi durante l’assiduo tramare al fianco di Lila per aiutarla a sbarazzarsi di Marcello, c’erano stati persino momenti in cui ero tornata a credermi più bella di lei, e in qualche sguardo di Stefano avevo captato la possibilità di piacergli. Ma Lila adesso aveva ripreso il sopravvento, la soddisfazione le aveva moltiplicato la bellezza, mentre io, travolta dalle fatiche della scuola, logorata dalla passione frustrata per Nino, ecco che stavo ridiventando brutta. Sbiadiva il colore sano, tornava l’acne. E, una mattina, comparve di colpo anche lo spettro degli occhiali.

Il professor Gerace mi interrogò su qualcosa che aveva scritto alla lavagna e si accorse che non vedevo quasi niente. Mi disse che dovevo andare subito da un oculista, volle scrivermelo sul quaderno, pretese per il giorno dopo la firma di uno dei miei genitori. Tornai a casa, mostrai il quaderno, ero piena di sensi di colpa per la spesa che avrebbero comportato le lenti. Mio padre s’incupì, mia madre mi gridò: «Stai sempre sui libri e ti sei rovinata la vista».

Ci restai molto male. Ero stata punita, dunque, per la superbia di voler studiare? Ma Lila? Non aveva letto molto più di me? E allora per quale ragione lei aveva una vista perfetta e io vedevo sempre meno? Perché io avrei dovuto portare le lenti per tutta la vita e lei no?

La necessità degli occhiali mi accentuò la smania di trovare un disegno che, nel bene come nel male, tenesse insieme il mio destino e quello della mia amica: io cieca, lei un falco; io con la pupilla opaca, lei che da sempre

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stringeva gli occhi saettando sguardi che vedevano di più; io attaccata al suo braccio, tra le ombre, lei che mi guidava con uno sguardo rigoroso. Alla fine mio padre, grazie ai suoi traffici al comune, trovò i soldi. Le fantasticherie si attenuarono. Andai dall’oculista, mi fu diagnosticata una forte miopia, gli occhiali si concretizzarono. Quando mi guardai allo specchio la mia immagine troppo nitida fu un duro colpo: impurità della pelle, faccia larga, bocca grande, naso grosso e gli occhi prigionieri nella cornice della montatura, che pareva tracciata con accanimento da un disegnatore rabbioso sotto sopracciglia già di per sé troppo folte. Mi sentii definitivamente deturpata e decisi di mettere gli occhiali solo in casa o, al massimo, se dovevo ricopiare qualcosa dalla lavagna. Ma una mattina, all’uscita da scuola, li dimenticai sul banco. Tornai in classe di corsa, il peggio era già accaduto. Nella furia che ci prendeva tutti dopo il suono dell’ultima campanella, erano finiti per terra: ora avevano una stanghetta spezzata, una lente rotta. Mi misi a piangere.

Non ebbi il coraggio di tornare a casa, mi rifugiai da Lila in cerca di aiuto.

Le raccontai cosa mi era successo, si fece dare gli occhiali, li esaminò. Disse di lasciarglieli. Si espresse con una determinazione diversa da quella che aveva di solito, fu più calma, come se ormai non fosse necessario battersi fino allo stremo per ogni piccola cosa. Mi immaginai qualche intervento miracoloso di Rino con i suoi strumenti di calzolaio e me ne tornai a casa sperando che i miei genitori non notassero che ero senza lenti.

Qualche giorno dopo, nel tardo pomeriggio, mi sentii chiamare dal cortile.

Di sotto c’era Lila, aveva i miei occhiali sul naso e lì per lì non mi colpì tanto che erano come nuovi, quanto che le donavano. Corsi giù pensando: perché a lei che non ne ha bisogno le lenti stanno bene e a me, che non ne posso fare a meno, mi guastano la faccia? Appena mi affacciai al portone si tolse gli occhiali divertita, sbattendo le palpebre. Disse: «Mi fanno male gli occhi» e me li mise lei stessa sul naso esclamando: «Che bella figura ci fai, li devi portare sempre». Aveva dato gli occhiali a Stefano, che li aveva fatti aggiustare da un ottico del centro. Mormorai in imbarazzo che non avrei potuto mai ripagarla, replicò ironica, forse con una punta di perfidia:

«Ripagare in che senso?».

«Darti i soldi».

Sorrise, poi disse fiera:

«Non c’è bisogno, adesso coi soldi faccio quello che mi pare».

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43.

Il denaro diede ancora più forza all’impressione che ciò che mancava a me lo avesse lei e viceversa, in un gioco continuo di scambi e rovesciamenti che, ora con allegria, ora soffertamente, ci rendevano indispensabili l’una all’altra.

“Lei ha Stefano” mi chiesi dopo l’episodio degli occhiali, “schiocca le dita e mi fa riparare subito le lenti: io cos’ho?”.

Mi risposi che avevo la scuola, privilegio che lei aveva perso per sempre.

Quella è la mia ricchezza, cercai di convincermi. E infatti in quell’anno i professori, tutti, ripresero a lodarmi. Le pagelle furono sempre più brillanti e persino il corso teologico per corrispondenza andò benissimo, ebbi in premio una Bibbia con la copertina nera.

Sfoggiai i miei successi come se fossero il braccialetto d’argento di mia madre, eppure con quella bravura non sapevo cosa farci. In classe non c’era nessuno con cui potessi ragionare delle cose che leggevo, delle idee che mi venivano in mente. Alfonso era un ragazzo diligente, dopo il cedimento dell’anno precedente s’era rimesso in carreggiata ed era più che sufficiente in tutte le materie. Ma quando cercavo di riflettere con lui sui Promessi sposi, o sui romanzi meravigliosi che continuavo a prendere nella biblioteca del maestro Ferraro, o persino sullo Spirito Santo, si limitava ad ascoltare e per timidezza o per insipienza non diceva niente che mi stimolasse ulteriori pensieri. In più, mentre nelle interrogazioni usava un buon italiano, a tu per tu non usciva mai dal dialetto e in dialetto era difficile ragionare sulla corruzione della giustizia terrena, come ben si vedeva durante il pranzo in casa di don Rodrigo, o sui rapporti tra Dio, lo Spirito Santo e Gesù, che pur essendo una persona sola secondo me quando si scomponevano in tre dovevano per forza ordinarsi secondo una gerarchia, e allora chi veniva per primo, chi per ultimo?

Presto mi tornò in mente ciò che una volta mi aveva detto Pasquale: il mio, anche se era un liceo classico, non doveva essere dei migliori. Conclusi che aveva ragione. Raramente vedevo le mie compagne di scuola ben vestite come le ragazze di via dei Mille. E non succedeva mai che venissero a

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prenderle, all’uscita, giovani elegantemente abbigliati, con automobili più lussuose di quelle di Marcello o di Stefano. Anche i meriti intellettuali scarseggiavano. L’unico ragazzo che aveva intorno a sé una fama simile alla mia era Nino, ma ormai, vista la freddezza con cui lo avevo trattato, filava via a testa bassa, non mi guardava nemmeno. Che fare, allora?

Avevo bisogno di esprimermi, la testa era affollata. Ricorrevo a Lila, specialmente quando a scuola era vacanza. Ci incontravamo, parlavamo tra noi. Le dicevo dettagliatamente delle lezioni, dei professori. Lei mi ascoltava con attenzione, e io speravo che si incuriosisse e tornasse alla fase in cui in segreto o palesemente correva subito a procurarsi i libri che le avrebbero permesso di tenermi dietro. Ma non successe mai, era come se una parte di lei tenesse saldamente al guinzaglio l’altra parte. Emerse invece presto una sua tendenza a intervenire di getto, in genere in modo ironico. Una volta, tanto per fare un esempio, le dissi del mio corso teologico e buttai lì, per impressionarla con le questioni su cui mi arrovellavo, che dello Spirito Santo non sapevo cosa pensare, non mi era chiara la sua funzione. «Cos’è» ragionai ad alta voce, «un’entità subordinata, al servizio sia di Dio che di Gesù, tipo un messaggero? O un’emanazione delle prime due persone, un loro fluido miracoloso? Ma, nel primo caso, com’è possibile che un’entità che fa il messaggero poi è tutt’uno con Dio e suo figlio? Non sarebbe come dire che mio padre che fa l’usciere al comune è tutt’uno col sindaco, col comandante Lauro? E se invece si guarda al secondo caso, be’, un fluido, il sudore, la voce sono parte della persona da cui promanano: che senso ha, dunque, ritenere lo Spirito Santo separato da Dio e da Gesù? O è lo Spirito Santo la persona più importante e le altre due sono un suo modo d’essere, o non capisco qual è la sua funzione». Lila, mi ricordo, si stava preparando per uscire con Stefano: andavano a un cinema del centro insieme a Pinuccia, a Rino e ad Alfonso. La guardavo mentre metteva una gonna nuova, una giacca nuova, ed era proprio un’altra persona ormai, perfino le caviglie non erano più due stecchi. Tuttavia vidi che gli occhi le si rimpicciolivano come quando cercava di afferrare qualcosa di sfuggente. Disse in dialetto: «Tu perdi ancora tempo con queste cose, Lenù? Noi stiamo volando sopra una palla di fuoco.

La parte che s’è raffreddata galleggia sulla lava. Su questa parte costruiamo i palazzi, i ponti e le strade. Ogni tanto la lava esce dal Vesuvio oppure fa venire un terremoto che distrugge tutto. Ci sono microbi dovunque che ti fanno ammalare e morire. Ci sono le guerre. C’è una miseria in giro che ci rende tutti cattivi. Ogni secondo può succedere qualcosa che ti fa soffrire in

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un modo che non hai mai abbastanza lacrime. E tu che fai? Un corso teologico in cui ti sforzi di capire che cos’è lo Spirito Santo? Lascia stare, è stato il Diavolo a inventarsi il mondo, non il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Vuoi vedere il filo di perle che m’ha regalato Stefano?». Parlò così, grossomodo, confondendomi. E non solo in quella circostanza, ma sempre più spesso, finché quel tono si stabilizzò, diventò il suo modo di tenermi testa. Se io buttavo lì qualcosa sulla Santissima Trinità, lei con poche battute frettolose ma quasi sempre bonarie cancellava ogni possibile conversazione e passava a mostrarmi i doni di Stefano, l’anello di fidanzamento, la collana, un vestito nuovo, un cappellino, mentre le cose che mi appassionavano, con cui mi facevo bella coi professori tanto che loro mi consideravano brava, si afflosciavano in un angolo prive di senso. Lasciavo perdere idee, libri.

Passavo ad ammirare tutti quei regali in contrasto con la solita casa povera di Fernando lo scarparo; mi provavo gli abiti e gli oggetti di valore; prendevo quasi subito atto che addosso a me non sarebbero mai stati bene come a lei; e me la battevo.

Are sens