Mi raccontò che studiava da segretaria d’azienda e aveva un ragazzo che
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presto avrei conosciuto perché sarebbe venuto a trovarla, ma di nascosto.
Infine mi disse una cosa che mi diede un tuffo al cuore. Sapeva tutto di me, sapeva che facevo il ginnasio, che a scuola ero bravissima e che ero fidanzata con Gino, il figlio del farmacista.
«Chi te l’ha detto?».
«Mio fratello».
Dunque Nino mi aveva riconosciuta, dunque sapeva chi ero, dunque la sua non era disattenzione, ma forse timidezza, forse disagio, forse vergogna per la dichiarazione che mi aveva fatto da bambino.
«È da tanto che ho smesso con Gino» dissi, «tuo fratello non è informato bene».
«Pensa solo a studiare, quello, è già troppo che mi ha detto di, te, di solito sta con la testa tra le nuvole».
«Non viene?».
«Viene quando se ne va papà».
Mi raccontò in modo molto critico di Nino. Era uno senza sentimenti. Non si entusiasmava mai di niente, non s’arrabbiava ma nemmeno era gentile. Se ne stava chiuso dentro se stesso, la sola cosa che lo interessava era lo studio.
Non gli piaceva niente, era di sangue freddo. L’unica persona che riusciva a turbarlo un pochino era il padre. Non che litigassero, era un figlio rispettoso e obbediente. Ma Marisa lo sapeva bene che Nino non lo poteva sopportare.
Lei invece lo adorava. Era l’uomo più buono e più intelligente del mondo.
«E resta molto, tuo padre? Quando se ne va?» le domandai con un interesse forse eccessivo.
«Tre giorni soltanto. Deve lavorare».
«E Nino arriva fra tre giorni?».
«Sì. S’è inventato che doveva aiutare la famiglia di un suo amico a fare il trasloco».
«E non è vero?».
«Non ha amici. E comunque non sposterebbe quella pietra da qua a là nemmeno per mia mamma, l’unica a cui vuole un po’ di bene, figuriamoci se va ad aiutare un amico».
Facemmo il bagno, ci asciugammo passeggiando lungo la riva. Mi fece vedere ridendo una cosa a cui non avevo fatto caso. In fondo alla spiaggia nerastra c’erano delle forme bianche, immobili. Mi trascinò ridendo su per la sabbia rovente e a un certo punto diventò evidente che erano persone.
Persone vive e coperte di fango. Si curavano a quel modo, non si sapeva di
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che. Ci sdraiammo sulla sabbia voltolandoci, spingendoci, giocando a fare le mummie come quelle persone. Ci divertimmo molto, poi andammo a fare un altro bagno.
In serata la famiglia Sarratore cenò in cucina e invitarono Nella e me a cenare con loro. Fu una bella serata. Lidia non accennò mai al rione, ma, passato il primo moto di ostilità, si informò su di me. Quando Marisa le disse che ero molto studiosa e andavo alla stessa scuola di Nino diventò particolarmente gentile. Il più cordiale di tutti fu comunque Donato Sarratore.
Riempì di complimenti Nella, lodò me per i risultati scolastici che avevo ottenuto, fu pieno di attenzioni per Lidia, giocò con Ciro, il bambino, volle rassettare lui, mi impedì di fare i piatti.
Lo studiai ben bene e mi sembrò una persona diversa da come me lo ricordavo. Era più magro, certo, s’era fatto crescere i baffi, ma a parte l’aspetto c’era qualcosa in più che non riuscii a capire e che dipendeva dal comportamento. Forse mi sembrò più paterno di mio padre e di una cortesia fuori del comune.
Questa sensazione si accentuò nei due giorni seguenti. Sarratore, quando andavamo al mare, non permetteva a Lidia e a noi due ragazze di portare alcunché. Si caricava lui dell’ombrellone, delle borse con gli asciugamani e con il cibo per il pranzo, sia all’andata, e passi, che al ritorno, quando la strada era tutta in salita. Cedeva il carico a noi solo quando Ciro frignava e pretendeva di essere portato in braccio. Aveva un corpo asciutto, con pochi peli. Indossava un costume di colore incerto, non di stoffa, sembrava di lana leggera. Nuotava molto ma senza allontanarsi, voleva mostrare a me e a Marisa com’era lo stile libero. Sua figlia nuotava come lui, con le stesse bracciate meditatissime, lente, e io subito cominciai a imitarli. Si esprimeva più in italiano che in dialetto e tendeva con un certo accanimento, specialmente con me, a metter su frasi tortuose e perifrasi inconsuete. Ci invitava allegramente, me, Lidia, Marisa, a correre avanti e indietro sulla battigia insieme a lui per tonificare i muscoli, e intanto ci faceva ridere con smorfie, vocine, un’andatura buffa. Quando faceva il bagno con la moglie se ne stavano l’uno stretto all’altra a galleggiare, si parlavano a voce bassa, ridevano spesso. Il giorno che partì, mi dispiacqui come si dispiacque Marisa, come si dispiacque Lidia, come si dispiacque Nella. La casa, pur risuonando delle nostre voci, sembrò silenziosa, un mortorio. L’unica consolazione fu che finalmente sarebbe arrivato Nino.
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32.
Provai a suggerire a Marisa di andarlo ad aspettare al porto, ma lei si rifiutò, disse che il fratello non meritava quelle attenzioni. Nino arrivò in serata.
Alto, magrissimo, camicia azzurra, pantaloni scuri, sandali, un sacco sulla spalla, non mostrò la minima emozione nel trovarmi a Ischia, in quella casa, tanto che pensai che a Napoli avessero il telefono, che Marisa avesse trovato il modo di avvisarlo. A tavola si espresse a monosillabi, a colazione non comparve. Si svegliò tardi, andammo al mare tardi, si caricò di poco o niente.
Si tuffò subito, con decisione, e nuotò verso il largo senza l’esibito virtuosismo del padre, con naturalezza. Sparì, temetti che fosse annegato, ma né Marisa né Lidia si preoccuparono. Riapparve quasi due ore dopo e si mise a leggere fumando una sigaretta dietro l’altra. Lesse per l’intera giornata, senza mai rivolgerci la parola e disponendo i mozziconi spenti nella sabbia in fila per due. Mi misi a leggere anch’io rifiutando l’invito di Marisa a passeggiare lungo la battigia. A cena mangiò in fretta, uscì. Sparecchiai, lavai i piatti pensando a lui. Mi feci il letto in cucina e mi misi di nuovo a leggere aspettando che rientrasse. Lessi fin verso l’una, poi mi addormentai con la luce accesa e il libro aperto sul petto. Al mattino mi svegliai con la luce spenta e il libro chiuso. Pensai che fosse stato lui e sentii una vampa d’amore nelle vene mai provata prima.
Nel giro di pochi giorni le cose migliorarono. Mi accorsi che ogni tanto mi guardava e poi girava lo sguardo da un’altra parte. Gli chiesi cosa leggeva, gli dissi cosa leggevo. Parlammo delle nostre letture, annoiando Marisa.
All’inizio sembrò ascoltarmi con attenzione, poi, proprio come Lila, attaccò a parlare lui e tirò avanti sempre più preso dai suoi ragionamenti. Poiché desideravo che si accorgesse della mia intelligenza tendevo a interromperlo, a dire la mia, ma era difficile, sembrava contento della mia presenza solo se rimanevo in silenzio ad ascoltare, cosa che mi rassegnai presto a fare. Del resto diceva cose che io mi sentivo incapace di pensare, o comunque di dire con la stessa sicurezza, e le diceva in un italiano forte, avvincente.
Marisa a volte ci tirava palle di sabbia, a volte irrompeva gridando:
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«Finitela, chi se ne frega di questo Dostoevskij, chi se ne frega dei Karamazov». Allora Nino s’interrompeva bruscamente e s’allontanava lungo la riva del mare a testa bassa, fino a diventare un puntino. Io passavo un po’
di tempo con Marisa a parlare del suo fidanzato, che non poteva venire più a vederla in segreto, cosa che la faceva piangere. Intanto mi sentivo sempre meglio, non potevo credere che la vita potesse essere così. Forse, pensavo, le ragazze di via dei Mille – quella tutta vestita di verde, per esempio – fanno una vita come questa.