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39.

Quella sera stessa Rino, prima di andarsene a spasso con Pasquale e Antonio, disse:

«Marcè, hai visto che macchina s’è fatto Stefano?».

Marcello, intontito dalla televisione accesa e dalla tristezza, nemmeno rispose.

Allora Rino tirò fuori il pettine dalla tasca, si diede una pettinata e buttò lì, allegro:

«Lo sai che s’è comprato le nostre scarpe per quarantacinquemila lire?».

«Si vede che ha soldi da buttare» rispose Marcello e Melina scoppiò a ridere, non si sa se per quella battuta o per ciò che trasmettevano in televisione.

Da quel momento Rino trovò il modo, sera dietro sera, di far innervosire Marcello e il clima diventò sempre più teso. Per di più appena arrivava Solara, sempre bene accolto da Nunzia, Lila spariva, diceva che era stanca e andava a dormire. Una sera Marcello, molto giù di corda, parlò con Nunzia.

«Se vostra figlia se ne va a dormire appena arrivo, io che vengo a fare?».

Sperava evidentemente che lei lo confortasse, dicendogli qualcosa che lo incoraggiasse a perseverare nel tentativo di guadagnarsi l’amore della ragazza. Ma Nunzia non seppe cosa rispondergli e lui allora borbottò:

«Le piace un altro?».

«Ma no».

«Io so che va a fare la spesa da Stefano».

«E dove deve andare, figlio mio, a fare la spesa?».

Marcello tacque, a occhi bassi.

«L’hanno vista in macchina col salumiere».

«C’era pure Lenuccia: Stefano va dietro alla figlia dell’usciere».

«Lenuccia non mi pare una buona compagnia per vostra figlia. Ditele di non vederla più».

Io non ero una buona compagnia? Lila non doveva vedermi più? Quando la mia amica mi riferì quella richiesta di Marcello passai definitivamente

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dalla parte di Stefano e cominciai a lodarne i modi discreti, la calma determinazione. «È ricco» le dissi infine. Ma già mentre dicevo quella frase mi resi conto di come si stava ulteriormente modificando la ricchezza sognata da bambine. I forzieri pieni di monete d’oro che una processione di servi in livrea avrebbe depositato nel nostro castello quando avremmo pubblicato un libro come Piccole donne – ricchezza e fama – erano definitivamente sbiaditi.

Durava forse l’idea del denaro come cemento per consolidare la nostra esistenza e impedire che si smarginasse insieme alle persone che ci erano care. Ma il tratto fondamentale che ormai stava prevalendo era la concretezza, il gesto quotidiano, la trattativa. Questa ricchezza dell’adolescenza muoveva sì da un’illuminazione fantastica ancora infantile –

i disegni di scarpe mai viste – ma s’era materializzata nell’insoddisfazione rissosa di Rino che voleva spendere da gran signore, nella televisione, nelle paste e nell’anello di Marcello che mirava a comprare un sentimento, e infine, di passaggio in passaggio, in quel giovane cortese, Stefano, che vendeva salumi, aveva un’auto rossa decappottabile, spendeva quarantacinquemila lire come niente, incorniciava disegnini, voleva commerciare oltre che in provoloni anche in scarpe, investiva in pellame e forza lavoro, sembrava convinto di saper inaugurare una nuova epoca di pace e di benessere per il rione: era, insomma, ricchezza che stava nei fatti di ogni giorno, e perciò senza splendore e senza gloria.

«È ricco» sentii che Lila ripeteva e ci mettemmo a ridere. Ma poi aggiunse:

«Anche simpatico, anche buono» e io mi dissi subito d’accordo, erano qualità quelle ultime che Marcello non aveva, un motivo ulteriore per stare dalla parte di Stefano. Tuttavia quei due aggettivi mi confusero, sentii che davano il colpo finale al fulgore delle fantasie infantili. Nessun castello, nessun forziere – mi sembrò di capire – avrebbero più riguardato Lila e me soltanto, chine a scrivere una storia come Piccole donne. La ricchezza, incarnandosi in Stefano, stava prendendo le sembianze di un giovane uomo col camice unto, stava mettendo lineamenti, odore, voce, esprimeva simpatia e bontà, era un maschio che conoscevamo da sempre, il figlio grande di don Achille.

Mi agitai.

«Comunque ti voleva pungere la lingua» dissi.

«Era un ragazzino» lei replicò commossa, zuccherosa come non l’avevo mai sentita, tanto che solo in quel momento mi accorsi che s’era spinta di fatto ben più avanti di quanto mi avesse detto a parole.

Nei giorni seguenti tutto diventò sempre più chiaro. Vidi come parlava a

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Stefano e come lui sembrava tornito dalla sua voce. Mi adattai al patto che stavano stringendo, non volevo essere tagliata fuori. E complottammo per ore

– noi due, noi tre – per fare in modo che mutassero in fretta le persone, i sentimenti, la disposizione delle cose. Nel locale accanto alla calzoleria arrivò un operaio che buttò giù la parete divisoria. La calzoleria fu riorganizzata.

Comparvero tre apprendisti, ragazzi della provincia, venivano da Melito, quasi muti. In un angolo si continuarono a fare risuolature, nel resto dello spazio Fernando sistemò banchetti, scaffalature, i suoi strumenti, le sue forme di legno secondo i vari numeri e attaccò, con improvvisa energia, insospettata in un uomo magrissimo e divorato da sempre da un astioso scontento, a ragionare sul da farsi.

Proprio nel giorno in cui il lavoro nuovo stava per cominciare, Stefano fece capolino. Portava un pacco fatto con la carta da imballaggio. Balzarono tutti in piedi, anche Fernando, come se fosse venuto per un’ispezione. Lui aprì il pacco, e dentro c’era un cospicuo numero di quadretti della stessa misura, incorniciati da un listello marrone. Erano i fogli di quaderno di Lila, sotto vetro come se fossero preziose reliquie. Chiese il permesso a Fernando di appenderli alle pareti, Fernando bofonchiò qualcosa e Stefano si fece aiutare da Rino e dagli apprendisti a mettere i chiodi. Solo quando i quadretti furono appesi Stefano chiese ai tre aiutanti di andarsi a prendere un caffè e passò loro un po’ di lire. Appena si trovò solo con lo scarparo e suo figlio, annunciò sottotono che voleva sposare Lila.

Cadde un silenzio insopportabile. Rino si limitò a un sorrisetto saputo, Fernando disse infine flebilmente:

«Stefano, Lina è fidanzata con Marcello Solara».

«Vostra figlia non lo sa».

«Che dici?».

S’intromise Rino, allegrissimo:

«Dice la verità: tu e mamma fate venire a casa quello stronzo, ma Lina non l’ha mai voluto e non lo vuole».

Fernando lanciò uno sguardo cattivo al figlio. Il salumiere disse con gentilezza, guardandosi intorno:

«Abbiamo un lavoro ormai avviato, non ci guastiamo il sangue. Io vi chiedo una sola cosa, don Fernà: fate decidere a vostra figlia. Se vuole Marcello Solara, mi rassegno. Le voglio così bene che se è felice con un altro mi ritiro e tra me e voi tutto resta come è adesso. Se invece vuole me – se vuole me –, non ci sono santi, voi me la dovete dare».

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«Mi stai minacciando» disse Fernando, ma tiepido, con un tono di rassegnata constatazione.

«No, vi sto pregando di fare il bene di vostra figlia».

«Lo so io qual è il suo bene».

«Sì, ma lei lo sa meglio di voi».

E qui Stefano si alzò, aprì la porta, chiamò me, me che ero fuori ad aspettare insieme a Lila.

«Lenù».

Entrammo. Come ci piaceva sentirci al centro di quei fatti, noi due insieme, e guidarli verso il loro esito. Mi ricordo la tensione sovreccitata di quel momento. Stefano disse a Lila:

Are sens