"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Guardai la Oliviero senza capire. Sembrava lei ad aver bisogno di riposo, era pallida e con la faccia gonfia. Mi disse:

«Mia cugina ha risposto proprio ieri: puoi andare da lei a Ischia, e restarci fino a fine agosto. Ti tiene volentieri, devi solo aiutarla un po’ in casa».

Mi si rivolse come se fosse lei mia madre e come se mia madre quella vera, quella con la gamba offesa e l’occhio storto, fosse solo un essere vivente di scarto, e in quanto tale da non prendere in considerazione. Per di più non se ne andò via subito dopo quella comunicazione, ma si trattenne ancora un’ora buona mostrandomi a uno a uno i libri che mi aveva portato in prestito. Mi spiegò quali dovevo leggere prima e quali dopo, mi fece giurare che prima di leggerli li avrei foderati, m’impose di restituirglieli tutti a fine estate senza nemmeno un’orecchia. Mia madre resistette paziente. Restò seduta, attenta, anche se l’occhio ballerino le dava un’aria allucinata. Esplose solo quando la maestra, finalmente, si accomiatò con un saluto sprezzante a lei e nemmeno una carezza a mia sorella, che ci teneva e ne sarebbe andata fiera. Mi si rivolse travolta dal rancore per l’umiliazione che le pareva di aver subìto per colpa mia. Disse:

«La signorina deve andarsi a riposare a Ischia, la signorina si è troppo affaticata. Va’ a preparare la cena, va’, che se no ti do uno schiaffo».

Due giorni dopo, però, dopo avermi preso le misure e avermi cucito in fretta e furia un costume da bagno copiandolo da non so dove, fu lei stessa ad accompagnarmi al vaporetto. Lungo la strada per il porto, mentre mi faceva il biglietto e poi mentre aspettavamo che m’imbarcassi, mi ossessionò con le raccomandazioni. La cosa che la spaventava di più era la traversata.

«Speriamo che non si agita il mare» diceva quasi tra sé e sé, e giurava che da piccola, a tre o quattro anni, mi aveva portata a Coroglio tutti i giorni per farmi asciugare il catarro e che il mare era bello e che avevo imparato a nuotare. Ma io non mi ricordavo né di Coroglio, né del mare, né di saper nuotare e glielo dissi. E lei prese un tono astioso, come a dire che il mio eventuale annegamento sarebbe stato da imputare non a lei, che quel che doveva fare per evitarlo l’aveva fatto, ma tutto alla mia smemoratezza. Poi si raccomandò di non allontanarmi dalla riva nemmeno col mare calmo, e di starmene a casa se era agitato o con la bandiera rossa. «Soprattutto» mi disse,

«se hai lo stomaco pieno o t’è venuto il marchese, non ti devi nemmeno

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bagnare i piedi». Prima di lasciarmi si rivolse a un anziano marinaio perché mi tenesse d’occhio. Quando il vaporetto si staccò dal molo mi sentii terrorizzata e insieme felice. Per la prima volta andavo via da casa, facevo un viaggio, un viaggio per mare. Il corpo largo di mia madre – insieme al rione, alla vicenda di Lila – si allontanò sempre più, si perse.

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30.

Rifiorii. La cugina della maestra si chiamava Nella Incardo e abitava a Barano. Raggiunsi il paese con la corriera, trovai facilmente la casa. Nella si rivelò un donnone gentile, molto allegro, chiacchierone, nubile. Affittava le sue stanze ai villeggianti e teneva per sé uno stanzino e la cucina. Io avrei dormito in cucina. Mi dovevo fare il letto la sera e smontare tutto (tavole, sostegni, materasso) la mattina. Scoprii che avevo degli obblighi inderogabili: alzarmi alle sei e mezza, preparare la colazione per lei e per i suoi ospiti –

quando arrivai c’era una coppia di inglesi con due bambini –, rassettare e lavare tazze e ciotole, apparecchiare per la cena, lavare i piatti prima di andare a dormire. Per il resto ero libera. Me ne potevo stare sul terrazzo a leggere con in faccia il mare, o scendere a piedi per una strada bianca e ripida verso una spiaggia lunga, larga, scura, che si chiamava spiaggia dei Maronti.

In principio, dopo tutte le paure che mi aveva inoculato mia madre e con tutti i problemi che avevo col mio corpo, passai il tempo sul terrazzo, vestita, a scrivere a Lila una lettera al giorno, ciascuna fitta di domande, spiritosaggini, descrizioni dell’isola con entusiasmi gridati. Ma Nella una mattina mi prese in giro, disse: «Che fai così? Mettiti il costume». Quando me lo misi scoppiò a ridere, lo trovò da vecchia. Me ne cucì uno secondo lei più moderno, molto scollato sul seno, meglio aderente al sedere, di un bel blu. Me lo provai e si entusiasmò, disse che era ora che andassi al mare, basta col terrazzo.

Il giorno dopo, tra mille paure e mille curiosità, mi avviai con un asciugamano e un libro verso i Maronti. Il percorso mi sembrò lunghissimo, non incontrai nessuno che salisse o scendesse. La spiaggia era sterminata e deserta, con una sabbia granulosa che frusciava a ogni passo. Il mare mandava un odore intenso, un suono secco, monotono.

Guardai a lungo, in piedi, quella gran massa d’acqua. Poi mi sedetti sull’asciugamano, incerta sul da farsi. Alla fine mi rialzai e bagnai i piedi in acqua. Come mi era potuto succedere di vivere in una città come Napoli e non pensare mai, nemmeno una volta, di fare un bagno di mare? Eppure era

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così. Avanzai cautamente lasciando che l’acqua mi salisse dai piedi alle caviglie, alle cosce. Poi misi un piedi in fallo e sprofondai. Annaspai terrorizzata, bevvi, ritornai in superficie, all’aria. Mi accorsi che mi veniva naturale muovere i piedi e le braccia in un certo modo per tenermi a galla.

Sapevo dunque nuotare. Mia madre mi aveva davvero portata al mare da piccola e davvero, lì, mentre lei faceva le sabbiature, avevo imparato. La vidi in un lampo, più giovane, meno disfatta, seduta sulla spiaggia nera sotto il sole di mezzogiorno, con un vestito bianco a fiorellini, la gamba buona coperta fino al ginocchio dalla veste, quella offesa tutta sepolta sotto la sabbia bruciante.

L’acqua di mare, il sole mi cancellarono rapidamente dal viso l’infiammazione dell’acne. Mi bruciai, mi annerii. Attesi lettere da Lila, ce le eravamo promesse salutandoci, ma non ne arrivarono. Mi esercitai a parlare un po’ in inglese con la famigliola ospitata da Nella. Capirono che volevo imparare e mi parlarono sempre più spesso con simpatia, feci molti passi avanti. Nella, che era sempre allegra, mi incoraggiò, cominciai a farle da interprete. Intanto non trascurava occasione per riempirmi di complimenti.

Mi faceva piatti enormi, cucinava benissimo. Diceva che ero arrivata uno straccio e ora, grazie alle sue cure, ero bellissima.

Insomma, gli ultimi dieci giorni di luglio mi diedero un senso di benessere fino ad allora sconosciuto. Provai una sensazione che poi nella mia vita s’è ripetuta spesso: la gioia del nuovo. Mi piaceva tutto: alzarmi presto, preparare la colazione, sparecchiare, passeggiare per Barano, fare la strada per i Maronti in salita e in discesa, leggere distesa al sole, tuffarmi, tornare a leggere. Non avevo nostalgia di mio padre, dei miei fratelli, di mia madre, delle vie del rione, dei giardinetti. Mi mancava soltanto Lila, Lila che però non rispondeva alle mie lettere. Temevo che le accadessero cose, belle o brutte, senza che io fossi presente. Era un timore vecchio, un timore che non mi era mai passato: la paura che, perdendomi pezzi della sua vita, perdesse intensità e centralità la mia. E il fatto che non mi rispondesse accentuava quella preoccupazione. Per quanto mi sforzassi nelle lettere di comunicarle il privilegio delle giornate a Ischia, il mio fiume di parole e il suo silenzio mi parevano dimostrare che la mia vita era splendida ma povera di eventi, tanto da lasciarmi il tempo di scriverle ogni giorno, la sua nera ma affollata.

Solo a fine luglio Nella mi disse che al posto degli inglesi, il primo agosto, sarebbe arrivata una famigliola napoletana. Era il secondo anno che venivano.

Gente molto perbene, signori gentilissimi, squisiti: specialmente il marito, un

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vero gentiluomo che le diceva sempre bellissime parole. E poi il figlio grande, proprio un bel ragazzo: alto, magro ma forte, quest’anno faceva diciassette anni. «Hai finito di stare sola» mi disse, e io m’imbarazzai, fui subito presa dall’ansia per questo giovane che stava arrivando, dalla paura che non riuscissimo a dirci nemmeno due parole, che non gli piacessi.

Appena partirono gli inglesi, che mi lasciarono un paio di romanzi per esercitarmi a leggerli, e il loro indirizzo, perché se mai avessi deciso di andare in Inghilterra sarei dovuta andare a trovarli, Nella si fece aiutare a lustrare le stanze, a cambiare tutta la biancheria, a rifare i letti. Lo feci volentieri, e mentre lavavo i pavimenti lei mi gridò dalla cucina:

«Come sei brava, sai pure leggere in inglese. Non ti bastano i libri che ti sei portata?».

E non fece che lodarmi a distanza, ad alta voce, per come ero disciplinata, per come ero giudiziosa, per come leggevo tutta la giornata e anche la sera.

Quando la raggiunsi in cucina la trovai con un libro in mano. Disse che gliel’aveva regalato il signore che doveva arrivare all’indomani, l’aveva scritto lui in persona. Nella lo teneva sul comodino, ogni sera leggeva una poesia, prima a mente e poi ad alta voce. Ormai le sapeva tutte a memoria.

«Guarda che cosa mi ha scritto» disse, e mi porse il libro.

Era Prove di sereno, di Donato Sarratore . La dedica diceva: A Nella, che è uno zucchero, e alle sue marmellate.

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31.

Scrissi subito a Lila: pagine e pagine di apprensione, gioia, voglia di fuga, prefigurazione appassionata del momento in cui avrei visto Nino Sarratore, avrei fatto la strada per i Maronti insieme a lui, ci saremmo fatti il bagno, avremmo guardato la luna e le stelle, avremmo dormito sotto lo stesso tetto.

Non feci che pensare ai momenti intensi in cui, tenendo per mano suo fratello, un secolo prima – ah, quanto tempo era passato – mi aveva dichiarato il suo amore. Eravamo due bambini, allora: adesso mi sentivo grande, quasi vecchia.

Il giorno dopo andai alla fermata della corriera per aiutare gli ospiti a portare su i bagagli. Ero in grande agitazione, non avevo dormito tutta la notte. La corriera arrivò, si fermò, ne scesero i viaggiatori. Riconobbi Donato Sarratore, riconobbi Lidia, la moglie, riconobbi Marisa, sebbene fosse molto cambiata, riconobbi Clelia, sempre in disparte, riconobbi il piccolo Pino, che adesso era un ragazzino serioso, e m’immaginai che il bambino tutto capricci che tormentava la madre dovesse essere quello che l’ultima volta che avevo visto la famiglia Sarratore al completo era ancora in carrozzina, sotto i proiettili lanciati da Melina. Ma non vidi Nino.

Marisa mi gettò le braccia al collo con un entusiasmo che non mi sarei mai aspettata: in tutti quegli anni non mi era mai, assolutamente mai, tornata in mente, mentre lei disse che aveva pensato spesso a me con tanta nostalgia.

Quando accennò ai tempi del rione e disse ai genitori che ero la figlia di Greco, l’usciere, Lidia, sua madre, fece una smorfia di fastidio e corse subito ad afferrare il figlio piccolo per rimproverarlo di non so cosa, mentre Donato Sarratore passò a occuparsi dei bagagli senza nemmeno una frase tipo: come sta papà.

Mi depressi. I Sarratore si sistemarono nelle loro stanze, io andai al mare con Marisa, che conosceva i Maronti e tutta Ischia benissimo e già scalpitava, voleva andare al Porto, dove c’era più animazione, e a Forio, e a Casamicciola, dovunque ma non a Barano che secondo lei era un mortorio.

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