"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Quando Sarratore ci vide da lontano cercò di sparire in fretta nel buio del tunnel. Io lo chiamai:

«Signor Sarratore».

Si girò malvolentieri.

Gli dissi, dandogli del lei, cosa all’epoca fuori del comune nel nostro ambiente:

«Non so se si ricorda Antonio, è il figlio maggiore della signora Melina».

Sarratore tirò fuori una voce squillante, molto affettuosa:

«Certo che me lo ricordo, ciao Antonio».

«Io e lui siamo fidanzati».

«Ah, bene».

«E abbiamo parlato molto, ora le spiegherà».

Antonio capì che era arrivato il suo momento e disse pallidissimo, teso, faticando a parlare in italiano:

«Sono molto contento di vedervi, signor Sarratore, io non dimentico. Vi sarò sempre grato per quello che avete fatto per noi dopo la morte di mio padre. Vi ringrazio soprattutto per avermi sistemato nell’officina del signor Gorresio, devo a voi se ho imparato un mestiere».

«Digli di tua madre» lo incalzai nervosa.

Lui si seccò, mi fece cenno di stare zitta. Continuò:

«Voi però non vivete più nel rione e non avete chiara la situazione. Mia madre, se solo sente il vostro nome, perde la testa. E se vi vede, se vi vede anche una volta sola, finisce al manicomio».

Sarratore annaspò:

«Antonio, figlio mio, io non ho mai avuto nessuna intenzione di fare del male a tua madre. Tu giustamente ti ricordi quanto mi sono prodigato per voi.

E infatti ho sempre e soltanto voluto aiutare lei e voi tutti».

«Allora se volete continuare ad aiutarla non la cercate, non le mandate libri, non vi fate vedere nel rione».

«Questo non me lo puoi chiedere, non mi puoi impedire di rivedere luoghi

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che mi sono cari» disse Sarratore con una voce calda, artificialmente commossa.

Quella tonalità m’indignò. La conoscevo, l’aveva usata spesso a Barano, sulla spiaggia dei Maronti. Era pastosa, carezzevole, la tonalità che lui s’immaginava dovesse avere un uomo di spessore che scriveva versi e articoli sul Roma. Fui sul punto di intervenire, ma Antonio, stupendomi, mi precedette. Curvò le spalle, insaccò la testa e intanto allungò una mano verso il torace di Donato Sarratore urtandolo con le sue dita potenti. Disse in dialetto:

«Io non ve lo impedisco. Però vi prometto che se voi togliete a mia madre quel poco di ragione che le è rimasta, vi passerà per sempre la voglia di rivedere questi posti di merda».

Sarratore diventò pallidissimo.

«Sì» disse in fretta, «ho capito, grazie».

Girò i tacchi e se la batté in direzione della stazione.

Mi infilai sottobraccio ad Antonio, fiera di quella sua impennata, ma mi accorsi che stava tremando. Pensai, forse per la prima volta, a cosa doveva essere stata per lui, da ragazzino, la morte del padre, e poi il lavoro, la responsabilità che gli era caduta addosso, il crollo di sua madre. Lo tirai via piena d’affetto e mi diedi un’altra scadenza: lo lascerò dopo il matrimonio di Lila, mi dissi.

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51.

Di quel matrimonio il rione si ricordò a lungo. I suoi preparativi s’intrecciarono alla lenta, elaborata, rissosa nascita delle scarpe Cerullo e sembrarono due imprese che, per un motivo o per l’altro, non sarebbero mai arrivate a termine.

Il matrimonio, tra l’altro, incideva non poco sulla calzoleria. Fernando e Rino sgobbavano molto non solo sulle scarpe nuove, che per ora non rendevano nulla, ma anche su mille altri lavoretti immediatamente redditizi dei cui introiti avevano urgenza. Dovevano mettere insieme abbastanza soldi per assicurare a Lila un po’ di corredo e fronteggiare la spesa del rinfresco, che s’erano voluti a tutti i costi assumere per non fare la figura dei pezzenti.

Di conseguenza la tensione in casa Cerullo fu per mesi altissima: Nunzia ricamava lenzuola notte e giorno e Fernando faceva continue scenate rimpiangendo l’epoca felice in cui, nel suo bugigattolo del quale era il re, incollava, cuciva, martellava tranquillo con le puntine tra le labbra.

Gli unici sereni sembravano i due fidanzati. Ci furono solo due piccoli momenti di attrito tra loro. Il primo riguardò la loro futura casa. Stefano voleva comprare un appartamentino nel rione nuovo, Lila invece avrebbe preferito prendere un appartamento nelle vecchie palazzine. Discussero. La casa nel rione vecchio era più grande ma buia e non aveva vista, come del resto tutte le case di quell’area. L’appartamento nel rione nuovo era più piccolo ma aveva un’enorme vasca da bagno come quella della pubblicità Palmolive, il bidet e l’affacciata sul Vesuvio. Risultò inutile far notare che, mentre il Vesuvio era un profilo labile e distante che sbiadiva nel cielo nebuloso, a meno di duecento metri correvano nitidi i binari della ferrovia.

Stefano era sedotto dal nuovo, dagli appartamenti coi pavimenti splendenti, dalle pareti bianchissime, e Lila presto cedette. Più di ogni altra cosa contava che a meno di diciassette anni sarebbe stata la padrona di una casa sua, con l’acqua calda che usciva dai rubinetti, e non in affitto ma di proprietà.

Il secondo motivo di attrito fu il viaggio di nozze. Stefano propose come meta Venezia, e Lila, rivelando una linea di tendenza che poi avrebbe segnato

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tutta la sua vita, insistette per non allontanarsi molto da Napoli. Suggerì una permanenza a Ischia, a Capri e casomai sulla costiera amalfitana, tutti luoghi dove non era mai stata. Il futuro marito si disse quasi subito d’accordo.

Per il resto ci furono tensioni minime, più che altro riverberi di problemi interni alle famiglie di provenienza. Per esempio, se Stefano andava nella calzoleria Cerullo, finiva sempre, quando poi vedeva Lila, per farsi sfuggire parole pesanti su Fernando e Rino e lei si dispiaceva, scattava in loro difesa.

Lui scuoteva la testa poco convinto, cominciava a vedere nella storia delle scarpe un investimento eccessivo di denaro e alla fine dell’estate, quando ci furono tensioni forti tra lui e i due Cerullo, pose un limite preciso al fare e disfare di padre, figlio, aiutanti. Disse che entro novembre voleva i primi risultati: almeno i modelli invernali, per uomo e per donna, pronti per essere esposti in vetrina sotto Natale. Poi, piuttosto nervoso, si lasciò sfuggire con Lila che Rino era più pronto a chiedere soldi, che a lavorare. Lei difese il fratello, lui replicò, lei s’inalberò, lui fece immediatamente marcia indietro.

Andò a prendere il paio di scarpe da cui era nato tutto quel progetto, scarpe acquistate e mai usate, tenute come una testimonianza preziosissima della loro storia, e le tastò, le annusò, si commosse parlando di come ci sentiva, ci vedeva, ci aveva sempre visto le sue manine di quasi bambina che avevano lavorato insieme alle manacce del fratello. Erano sul terrazzo della vecchia casa, quella dove avevano sparato i fuochi in gara coi Solara. Le prese le dita e gliele baciò a una a una dicendo che non avrebbe mai più permesso che ricominciassero a rovinarsi.

Lila stessa mi raccontò quell’atto d’amore, molto allegra. Lo fece la volta che mi portò a vedere la casa nuova. Che splendore: pavimenti a riggiòle lucidissime, la vasca per farsi il bagno con la schiuma, i mobili intagliati della camera da pranzo e della camera da letto, la ghiacciaia e persino il telefono.

Mi segnai il numero, emozionata. Eravamo nate e vissute in case piccole, senza una stanza nostra, senza un posto dove studiare. Io vivevo ancora così, lei presto no. Uscimmo sul balcone che dava sulla ferrovia e sul Vesuvio, le chiesi cautamente: «Tu e Stefano venite qui anche da soli?».

«Qualche volta sì».

«E che succede?».

Mi guardò come se non capisse.

«In che senso?».

Mi imbarazzai.

«Vi baciate?».

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