Cadeva allora un brutto silenzio e io mi sentivo molto fiera di aver rintuzzato ogni critica alla mia amica con un tono e una lingua che tra l’altro li aveva messi in soggezione.
Ma una sera si finì a litigare in malo modo. Eravamo tutti, anche Enzo, a mangiare una pizza al Rettifilo, in un posto dove la margherita e una birra costavano cinquanta lire. Quella volta cominciarono le ragazze: Ada, mi pare, disse che secondo lei Lila era ridicola ad andare in giro sempre fresca di parrucchiere e con i vestiti come Soraya anche se spargeva il veleno per gli scarafaggi davanti alla porta di casa, e chi più chi meno ridemmo tutti. Poi, una cosa tira l’altra, Carmela arrivò a dire chiaramente che secondo lei Lila s’era messa con Stefano per i soldi, per sistemare il fratello e il resto della
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famiglia. Io stavo cominciando la solita difesa d’ufficio quando Pasquale m’interruppe e disse:
«Il punto non è questo. Il punto è che Lina sa da dove vengono quei soldi».
«Mo’ vuoi di nuovo tirare in ballo don Achille e la borsa nera e i traffici e l’usura e tutte le porcherie di prima e dopo la guerra?» dissi io.
«Sì, e se la tua amica ora stava qui mi dava ragione».
«Stefano è solo un commerciante che sa come si vende».
«E i soldi che ha messo nella calzoleria dei Cerullo gli vengono dalla salumeria?».
«Perché, secondo te?».
«Quelli provengono dagli ori delle madri di famiglia che don Achille s’era nascosto dentro il materasso. Lina fa la signora col sangue di tutta la povera gente di questo rione. E si fa mantenere, lei e tutti i familiari, ancora prima di essersi sposata».
Io stavo per rispondergli quando s’intromise Enzo con il suo solito distacco:
«Scusa, Pascà, che significa “si fa mantenere”?».
Mi bastò sentire quella domanda per capire che si sarebbe messa male.
Pasquale diventò rosso, s’imbarazzò:
«Mantenere significa mantenere. Chi paga, scusa, quando Lina va dal parrucchiere, quando si compra i vestiti e le borse? Chi ha messo i soldi nella calzoleria per far giocare lo scarparo a fare il fabbricante di scarpe?».
«Cioè tu stai dicendo che Lina non si è innamorata, non s’è fidanzata, non si sposerà presto con Stefano, ma si è venduta?».
Restammo tutti zitti. Antonio borbottò:
«Ma no, Enzo: Pasquale non vuole dire questo; lo sai che vuole bene a Lina come le vogliamo bene tutti quanti noi».
Enzo gli fece cenno di tacere.
«Statti zitto, Anto’, fa’ rispondere a Pasquale».
Pasquale disse cupo:
«Sì, si è venduta. E se n’è fottuta della puzza dei soldi che ogni giorno spende».
Provai di nuovo a dire la mia, a quel punto, ma Enzo mi toccò un braccio.
«Scusa, Lenù, voglio sapere Pasquale come la chiama una femmina che si vende».
Qui Pasquale ebbe uno scatto di violenza che gli leggemmo tutti negli occhi e disse quello che da mesi aveva in mente di dire, di urlare a tutto il
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rione:
«Zoccola, la chiamo zoccola. Lina si è comportata e si sta comportando da zoccola».
Enzo si alzò e disse quasi a bassa voce:
«Vieni fuori».
Antonio balzò su, trattenne per un braccio Pasquale che voleva alzarsi, disse:
«Mo’ non esageriamo, Enzo. Pasquale sta solo dicendo una cosa che non è un’accusa, è una critica che ci sentiamo di fare tutti».
Enzo ripose, questa volta a voce alta:
«Io no». E andò verso l’uscita scandendo: «Vi aspetto fuori tutt’e due».
Impedimmo a Pasquale e Antonio di seguirlo, non successe niente. Si limitarono a tenersi il muso per qualche giorno, poi tutto come prima.
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46.
Ho raccontato questa litigata per dire come passò quell’anno e che clima ci fu intorno alle scelte di Lila, specialmente tra i giovani che segretamente o esplicitamente l’avevano amata, l’avevano desiderata, e con tutta probabilità l’amavano e la desideravano ancora. Quanto a me, è difficile dire in quale garbuglio di sentimenti mi trovassi. In ogni occasione difendevo Lila, e mi piaceva farlo, mi piaceva sentirmi parlare con l’autorità di chi fa studi difficili. Ma sapevo anche che avrei raccontato altrettanto volentieri, casomai con qualche esagerazione, come Lila era stata davvero dietro ogni mossa di Stefano, e io insieme con lei, concatenando passaggio a passaggio come se fosse un problema di matematica, fino a quel risultato: sistemarsi, sistemare il fratello, provare a realizzare il progetto del calzaturificio e persino prendere soldi per farmi riparare gli occhiali se si rompevano.
Passavo davanti alla vecchia bottega di Fernando e provavo un sentimento di vittoria per interposta persona. Lila, era evidente, ce l’aveva fatta. La calzoleria, che non aveva mai avuto insegna, ora esponeva in cima alla vecchia porta una specie di targa con la scritta: Cerullo. Fernando, Rino, i tre apprendisti lavoravano a jògnere, orlare, martellare, smerigliare da mattina a notte fonda chini sui deschi. Si sapeva che padre e figlio litigavano molto. Si sapeva che Fernando sosteneva che le scarpe, specialmente quelle per donna, non si potevano realizzare come se le era inventate Lila, che erano solo una fantasia di bambina. Si sapeva che Rino sosteneva il contrario e che andava da Lila a chiederle d’intervenire. Si sapeva che Lila diceva che non voleva più saperne, e che quindi Rino andava da Stefano e lo trascinava in bottega a dare lui ordini precisi al padre. Si sapeva che Stefano ci andava e che guardava a lungo i disegni di Lila incorniciati sulle pareti, sorrideva tra sé e sé e diceva pacatamente che voleva esattamente le scarpe come si vedevano in quei quadretti, li aveva attaccati lì apposta. Si sapeva insomma che tutto andava a rilento e i lavoranti prima ricevevano istruzioni da Fernando e poi Rino le cambiava e si bloccava tutto e si ricominciava e Fernando si accorgeva dei cambiamenti e tornava a cambiare e arrivava Stefano e via