"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Quanto si era messo in ordine, Alfonso. Non lo avevo mai visto in abito scuro, camicia bianca, cravatta. Fuori dai suoi dimessi abiti di scuola, fuori dal camice da salumiere, mi sembrò non solo più grande dei suoi sedici anni, ma di colpo – pensai – fisicamente diverso da suo fratello Stefano. Era più alto, ormai, era più sottile, soprattutto pareva bello come un ballerino spagnolo che avevo visto in televisione, occhi grandi, labbra tumide, nessuna traccia ancora di barba. Marisa evidentemente gli si era attaccata alle costole, il rapporto era cresciuto, si dovevano essere visti senza che ne sapessi nulla.

Alfonso, pur così devoto a me, era stato vinto dalla capigliatura tutta riccioli di Marisa e della sua chiacchiera inarrestabile che lo esimeva, lui così timido, dal riempire i vuoti della conversazione? Si erano fidanzati? Ne dubitavo, lui me lo avrebbe detto. Ma le cose erano chiaramente a buon punto, tanto che l’aveva invitata al matrimonio del fratello. E lei, di sicuro per avere il permesso dei genitori, s’era tirata dietro a forza Nino.

Eccolo dunque lì, sul sagrato, il giovane Sarratore, del tutto fuori luogo col suo abbigliamento sciatto, troppo alto, troppo magro, capelli troppo lunghi e spettinati, le mani troppo sprofondate nelle tasche dei calzoni, l’aria di chi non sa dove collocarsi, gli occhi sugli sposi come tutti, ma senza alcun interesse, solo per poggiarli da qualche parte. Quella presenza inattesa contribuì molto al disordine emotivo della giornata. C’eravamo salutati in chiesa, un sussurro e basta, ciao, ciao. Nino poi s’era accodato alla sorella e ad Alfonso, io ero stata afferrata saldamente per un braccio da Antonio e, sebbene mi fossi subito divincolata, ero comunque finita in compagnia di

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Ada, di Melina, di Pasquale, di Carmela, di Enzo. Ora, nella ressa, mentre gli sposi si infilavano in una grande auto bianca insieme al fotografo e al suo aiutante per andare a far fotografie al parco della Rimembranza, mi venne l’ansia che la madre di Antonio riconoscesse Nino, che gli leggesse in viso qualche tratto di Donato. Ma fu una preoccupazione infondata. La madre di Lila, Nunzia, la trascinò con sé, svampita, insieme a Ada, ai figli più piccoli, in un’automobile che se la portò via.

In effetti nessuno riconobbe Nino, nemmeno Gigliola, nemmeno Carmela, nemmeno Enzo. Né si accorsero di Marisa, anche se lei aveva ancora tratti vicini alla bambina che era stata. I due Sarratore, sul momento, passarono del tutto inosservati. E intanto già Antonio mi spingeva verso la vecchia automobile di Pasquale, e con noi salivano Carmela ed Enzo, e già stavamo per partire, e io non seppi dire altro che: «Dove sono i miei genitori?

Speriamo che qualcuno se ne occupi». Enzo rispose che li aveva visti in non so quale automobile, e insomma non ci fu niente da fare, partimmo, e a Nino, fermo ancora sul sagrato con l’aria stordita, insieme ad Alfonso e a Marisa che parlavano tra loro, feci appena in tempo a lanciare uno sguardo, poi lo persi.

Diventai nervosa. Antonio mi sussurrò all’orecchio, sensibile a ogni mio mutamento d’umore:

«Che c’è?».

«Niente».

«Qualcosa t’ha seccato?».

«No».

Carmela rise:

«L’ha seccata che Lina s’è sposata e si vorrebbe sposare pure lei».

«Perché, tu non ti vorresti sposare?» chiese Enzo.

«Io, se fosse per me, mi sposerei anche domani».

«E con chi?».

«Lo so io con chi».

«Zitta» disse Pasquale, «che a te non ti piglia nessuno».

Andammo giù verso la Marina, Pasquale aveva una guida feroce. Antonio gli aveva sistemato l’auto così bene che lui la trattava come una macchina da corsa. Sfrecciava con gran fracasso ignorando gli scossoni dovuti alle strade dissestate. Arrivava veloce sulle auto che lo precedevano come se volesse travolgerle, inchiodava pochi centimetri prima di urtarle, sterzava bruscamente, le superava. Noi ragazze lanciavamo grida di terrore o

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pronunciavamo indignate raccomandazioni che lo facevano ridere e lo spingevano a fare ancora peggio. Antonio ed Enzo non battevano ciglio, al massimo facevano commenti grevi sugli automobilisti lenti, abbassavano il finestrino e, mentre Pasquale li superava, urlavano insulti.

Fu durante quel percorso verso via Orazio che cominciai a sentirmi in modo chiaro un’estranea resa infelice dalla mia stessa estraneità. Ero cresciuta con quei ragazzi, ritenevo normali i loro comportamenti, la loro lingua violenta era la mia. Ma seguivo anche quotidianamente, ormai da sei anni, un percorso di cui loro ignoravano tutto e che io invece affrontavo in modo così brillante da risultare la più capace. Con loro non potevo usare niente di ciò che imparavo ogni giorno, dovevo contenermi, in qualche modo autodegradarmi. Ciò che ero a scuola, lì ero obbligata a metterlo tra parentesi o a usarlo a tradimento, per intimidirli. Mi chiesi cosa ci facevo in quell’auto.

C’erano i miei amici, certo, c’era il mio fidanzato, stavamo andando alla festa di nozze di Lila. Ma proprio quella festa ratificava che Lila, l’unica persona che sentivo ancora necessaria malgrado le nostre vite divergenti, non ci apparteneva più e, venendo meno lei, ogni mediazione tra me e quei giovani, quell’auto in corsa per quelle strade, si era esaurita. Perché allora non ero con Alfonso, con cui condividevo sia l’origine che la fuga? Perché soprattutto non mi ero fermata per dire a Nino resta, vieni al ricevimento, dimmi quando esce la rivista col mio articolo, parliamo tra noi, scaviamoci una tana che ci tenga fuori da questo modo di guidare di Pasquale, dalla sua volgarità, dalle tonalità violente di Carmela e di Enzo, anche – sì, anche – di Antonio?

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60.

Fummo i primi giovani a entrare nella sala del ricevimento. Mi crebbe il cattivo umore. Silvio e Manuela Solara erano già a un loro tavolo insieme al commerciante di metalli, alla sua consorte fiorentina, alla mamma di Stefano.

I genitori di Lila erano anch’essi a una lunga tavolata con altri parenti, i miei genitori, Melina, Ada che smaniava e che accolse Antonio con gesti rabbiosi.

L’orchestrina stava prendendo posto, i suonatori provavano gli strumenti, il cantante il microfono. Ci aggirammo imbarazzati. Non sapevamo dove sederci, nessuno di noi osava chiedere ai camerieri, Antonio mi stava incollato al fianco sforzandosi di divertirmi.

Mia madre mi chiamò, feci finta di non sentire. Mi chiamò ancora e io niente. Allora si alzò, mi raggiunse col suo passo claudicante. Voleva che andassi a sedermi accanto a lei. Mi rifiutai. Sibilò:

«Perché il figlio di Melina ti sta sempre attorno?».

«Non mi sta attorno nessuno, ma’ ».

«Ti credi che sono scema?».

«No».

«Vieniti a sedere vicino a me».

«No».

«T’ho detto vieni. Non ti stiamo facendo studiare per farti rovinare da un operaio che ha la mamma pazza».

Le obbedii, era furiosa. Cominciarono ad arrivare altri giovani, tutti amici di Stefano. Tra loro vidi Gigliola, che mi fece cenno di raggiungerla. Mia madre mi trattenne. Pasquale, Carmela, Enzo, Antonio si sedettero finalmente col gruppo di Gigliola. Ada, che era riuscita a sbarazzarsi di sua madre affidandola a Nunzia, venne a parlarmi all’orecchio, disse: «Vieni». Tentai di alzarmi ma mia madre mi afferrò un braccio con stizza. Ada fece l’aria dispiaciuta e se ne andò a sedere accanto a suo fratello, che ogni tanto mi guardava e io gli facevo segno, alzando gli occhi al soffitto, che ero prigioniera.

L’orchestrina cominciò a suonare. Il cantante, sulla quarantina, quasi

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calvo, con lineamenti molto delicati, canticchiò qualcosa per prova.

Arrivarono altri invitati, la sala si affollò. Nessuno nascondeva la fame, ma naturalmente bisognava aspettare gli sposi. Provai ad alzarmi di nuovo e mia madre mi sibilò: «Devi stare vicino a me».

Vicino a lei. Pensai a com’era contraddittoria senza accorgersene, con le sue rabbie, con quei suoi gesti imperiosi. Non avrebbe voluto che studiassi, ma visto che ormai studiavo mi considerava migliore dei ragazzi con cui ero cresciuta e prendeva atto, come del resto stavo facendo io proprio in quella circostanza, che il mio posto non era tra loro. Tuttavia ecco che m’imponeva di starle vicino per trattenermi da chissà quale mare in tempesta, da chissà quale gorgo o precipizio, tutti pericoli che in quel momento erano rappresentati ai suoi occhi da Antonio. Ma starle vicino significava restare nel suo mondo, diventare del tutto simile a lei. E se fossi diventata simile a lei, chi altro mi sarebbe spettato se non Antonio?

Entrarono intanto gli sposi, applausi entusiastici. Attaccò subito l’orchestra con la marcia nuziale. Saldai indissolubilmente a mia madre, al suo corpo, l’estraneità che mi stava sempre più crescendo dentro. Ecco Lila festeggiata dal rione, sembrava felice. Sorrideva elegante, cortese, mano nella mano di suo marito. Era bellissima. Su di lei, sulla sua andatura, avevo puntato da piccola, per sfuggire a mia madre. Avevo sbagliato. Lila era rimasta lì, vincolata in modo lampante a quel mondo, dal quale s’immaginava di aver tratto il meglio. E il meglio era quel giovane, quel matrimonio, quella festa, il gioco delle scarpe per Rino e suo padre. Niente che avesse a che fare col mio percorso di ragazza studiosa. Mi sentii del tutto sola.

I due sposi furono obbligati a ballare tra i lampi del fotografo.

Volteggiarono per la sala, precisi nei movimenti. Devo prenderne atto, pensai: dal mondo di mia madre nemmeno Lila, malgrado tutto, ce l’ha fatta a fuggire. Io invece devo farcela, non posso più essere acquiescente. Devo cancellarla, come sapeva fare la Oliviero quando si presentava a casa nostra per imporle il mio bene. Mi stava trattenendo per un braccio ma io dovevo ignorarla, ricordarmi che ero la migliore in italiano, latino e greco, ricordarmi che avevo affrontato il professore di religione, ricordarmi che sarebbe comparso un articolo con la mia firma nella stessa rivista dove scriveva un ragazzo bello e bravissimo di terza liceo.

Nino Sarratore entrò in quel momento. Lo vidi prima di vedere Alfonso e Marisa, lo vidi e balzai in piedi. Mia madre provò a trattenermi per il lembo del vestito e io tirai via la veste. Antonio, che non mi perdeva d’occhio, si

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rischiarò, mi lanciò uno sguardo invitante. Ma io, con un movimento contrario a quello di Lila e di Stefano che ora stavano andando a prendere posto al centro della tavolata tra i coniugi Solara e la coppia di Firenze, puntai diritto verso l’ingresso, verso Alfonso, Marisa, Nino.

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