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61.

Trovammo posto. Feci chiacchiere generiche con Alfonso e Marisa, speravo che Nino si decidesse a rivolgermi la parola. Intanto Antonio mi arrivò alle spalle, si chinò a parlarmi all’orecchio:

«T’ho tenuto un posto».

Sussurrai:

«Va’ via, mia madre ha capito tutto».

Si guardò intorno incerto, molto intimidito. Tornò al suo tavolo.

C’era un brusio scontento, nella sala. Gli invitati più astiosi avevano subito cominciato a notare le cose che non andavano. Il vino non era della stessa qualità per tutte le tavolate. Alcuni erano già al primo quando ad altri non era ancora stato servito l’antipasto. C’era ormai chi diceva ad alta voce che dove sedevano i parenti e gli amici dello sposo il servizio era migliore di quello dove sedevano i parenti e gli amici della sposa. Sentii di detestare quelle tensioni, il loro montare rissoso. Mi feci animo e tirai Nino dentro la conversazione, gli chiesi di parlarmi del suo articolo sulla miseria a Napoli, contando di domandargli subito dopo, con naturalezza, notizie sul prossimo numero della rivista e sulla mia mezza paginetta. Lui attaccò con discorsi molto interessanti e molto informati sullo stato della città. Mi colpì la sua sicurezza. A Ischia aveva ancora i tratti del ragazzino tormentato, ora mi sembrò fin troppo maturo. Com’era possibile che un ragazzo di diciotto anni parlasse non genericamente di miseria con toni accorati, come faceva Pasquale, ma di fatti concreti, in modo distaccato, citando dati precisi?

«Dove le hai imparate queste cose?».

«Basta leggere».

«Cosa?».

«I giornali, le riviste, i libri che affrontano questi problemi».

Io non avevo mai nemmeno sfogliato un giornale o una rivista, leggevo solo romanzi. Lila stessa, al tempo in cui leggeva, non aveva mai letto altro se non i vecchi romanzi sbrindellati della biblioteca circolante. Ero indietro in tutto, Nino poteva aiutarmi a recuperare terreno.

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Cominciai a porgli sempre più domande, lui rispondeva. Rispondeva, sì, ma non dava risposte folgoranti come Lila, non aveva la sua capacità di rendere ogni cosa seducente. Costruiva discorsi con piglio da studioso, pieni di esempi concreti, e ogni mia domanda era una piccola spinta che avviava una frana: parlava senza sosta, senza abbellimenti, senza alcuna ironia, duro, tagliente. Alfonso e Marisa si sentirono presto isolati. Marisa disse:

«Madonna che noia mio fratello» e passarono a chiacchierare tra loro. Anche Nino e io ci isolammo. Non sentimmo più niente di quello che accadeva intorno a noi: non sapevamo cosa ci servivano nei piatti, cosa mangiavamo o bevevamo. Io mi sforzavo di trovare domande da fargli, ascoltavo composta le sue risposte-fiume. Captai presto, però, che il filo dei suoi discorsi era costituito da una sola idea fissa che animava ogni frase: il rifiuto delle parole fumose, la necessità di individuare con chiarezza problemi, ipotizzare soluzioni praticabili, intervenire. Io facevo sempre cenno di sì, mi dichiaravo d’accordo su tutto. Assunsi un’aria perplessa solo quando disse male della letteratura. «Se vogliono fare i venditori di fumo» ripeté due o tre volte molto corrucciato coi suoi nemici, vale a dire chiunque vendesse fumo, «facciano romanzi, me li leggerò volentieri; ma se bisogna cambiare veramente le cose, allora il discorso è un altro». In realtà – mi sembrò di capire – si serviva della parola “letteratura” per prendersela con chi rovinava la testa della gente a forza di quelle che chiamava chiacchiere inutili. A una mia labile protesta, per esempio, rispose così: «Troppi cattivi romanzi cavallereschi, Lenù, fanno un don Chisciotte; ma noi, con tutto il rispetto per don Chisciotte, non abbiamo bisogno, qui a Napoli, di batterci contro i mulini a vento, è solo coraggio sprecato: ci servono persone che sanno come funzionano i mulini e li fanno funzionare».

In poco tempo desiderai di poter discutere tutti i giorni con un ragazzo di quel livello: quanti sbagli avevo fatto con lui; che sciocchezza era stata volerlo, amarlo, e tuttavia evitarlo sempre. Colpa di suo padre. Ma anche colpa mia: io – io che ce l’avevo tanto con mia madre – avevo lasciato che il padre gettasse la sua brutta ombra sul figlio? Mi pentii, mi beai del mio pentimento, del romanzo in cui mi sentivo immersa. Intanto alzavo spesso la voce per superare il clamore della sala, la musica, e così faceva lui. A volte guardavo verso il tavolo di Lila: rideva, mangiava, chiacchierava, nemmeno s’era accorta di dove ero, della persona con cui parlavo. Raramente, invece, guardavo verso il tavolo di Antonio, temevo che mi facesse segno di raggiungerlo. Ma sentivo bene che mi teneva gli occhi addosso e che era

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nervoso, si stava arrabbiando. Pazienza, pensai, tanto ho già deciso, lo lascerò domani: non posso continuare con lui, siamo troppo diversi. Certo, mi adorava, si dedicava interamente a me, ma come un cagnolino. Ero abbagliata invece da come mi parlava Nino: senza alcuna subalternità. Mi esponeva il suo futuro, le idee in base a cui lo avrebbe costruito. Ascoltarlo mi accendeva la testa quasi come una volta me l’accendeva Lila. Il suo dedicarsi a me mi faceva crescere. Lui, sì, mi avrebbe sottratto a mia madre, lui che non voleva altro che sottrarsi a suo padre.

Mi sentii toccare una spalla, era di nuovo Antonio. Disse cupo:

«Balliamo».

«Mia madre non vuole» sussurrai.

Ribatté nervoso, a voce alta: «Ballano tutti, che problema è?».

Feci un mezzo sorriso imbarazzato a Nino, lui sapeva bene che Antonio era il mio fidanzato. Mi guardò serio, si rivolse ad Alfonso. Andai.

«Non mi stringere».

«Non ti sto stringendo».

C’era un gran frastuono e un’allegria brilla. Ballavano giovani, adulti, bambini. Ma io sentivo cosa c’era realmente dietro l’apparenza di festa. I parenti della sposa segnalavano con le facce storte uno scontento rissoso.

Specialmente le donne. S’erano svenate per il regalo, per la roba che portavano addosso, s’erano indebitate, e ora venivano trattate da pezzenti, con vino cattivo, ritardi intollerabili nel servizio? Perché Lila non interveniva, perché non protestava con Stefano? Le conoscevo. Avrebbero trattenuto la rabbia per amore di Lila ma a fine ricevimento, quando lei sarebbe andata a cambiarsi, quando sarebbe tornata vestita con l’abito da viaggio, quando avrebbe distribuito i confetti, quando se ne sarebbe andata tutta elegante insieme a suo marito, allora sarebbe scoppiato un litigio epocale, che avrebbe originato odi di mesi, di anni, e ripicche e insulti che avrebbero coinvolto mariti, figli, tutti con l’obbligo di mostrare a madri e sorelle e nonne di saper fare gli uomini. Conoscevo tutte, tutti. Vedevo gli sguardi feroci dei ragazzi rivolti al cantante, ai suonatori che guardavano in modo scorretto le loro fidanzate o si rivolgevano a loro con formule allusive. Vedevo come si parlavano Enzo e Carmela mentre ballavano, vedevo pure Pasquale e Ada seduti a tavola: era evidente che entro la fine della festa si sarebbero messi insieme e poi si sarebbero fidanzati e con tutta probabilità tra un anno, tra dieci, si sarebbero sposati. Vedevo Rino e Pinuccia. Nel loro caso tutto sarebbe stato più veloce: se il calzaturificio Cerullo si fosse avviato sul serio,

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tra un anno al massimo avrebbero avuto una festa di nozze non meno fastosa di quella. Ballavano, si guardavano negli occhi, si stringevano forte. Amore e interesse. Salumeria più calzature. Palazzine vecchie più palazzine nuove.

Ero come loro? Lo ero ancora?

«Chi è quello?» chiese Antonio.

«Chi vuoi che sia? Non lo riconosci?».

«No».

«È Nino, il figlio grande di Sarratore. E quella è Marisa, te la ricordi?».

Di Marisa non gli importava nulla, di Nino sì. Disse nervoso: «E tu prima mi porti da Sarratore a minacciarlo e poi ti metti a chiacchierare per ore con il figlio? Mi sono fatto il vestito nuovo per stare a guardare come ti diverti con quello lì, che non s’è nemmeno tagliato i capelli, non s’è messo neanche la cravatta?».

Mi piantò in mezzo alla sala e si diresse a passo svelto verso la porta a vetri che dava sul terrazzo.

Restai incerta sul da farsi per qualche secondo. Raggiungere Antonio.

Tornare da Nino. Avevo addosso lo sguardo di mia madre, anche se il suo occhio strabico pareva guardare altrove. Avevo addosso lo sguardo di mio padre ed era uno sguardo brutto. Pensai: se torno da Nino, se non raggiungo Antonio sul terrazzo, sarà lui a lasciarmi e per me sarà meglio così.

Attraversai la sala mentre l’orchestra continuava a suonare, le coppie continuavano a ballare. Sedetti al mio posto.

Nino sembrò non aver fatto minimamente caso a ciò che era accaduto. Ora parlava al suo modo torrenziale della professoressa Galiani. La stava difendendo da Alfonso, che sapevo bene quanto la detestasse. Stava dicendo che anche lui finiva spesso per scontrarsi con lei – troppo rigida –, ma come insegnante era straordinaria, lo aveva incoraggiato sempre, gli aveva trasmesso la capacità di studiare. Cercai di inserirmi nel discorso. Sentivo l’urgenza di lasciarmi riafferrare da Nino, non volevo che cominciasse a discutere col mio compagno di classe esattamente come fino a poco prima aveva discusso con me. Avevo bisogno – per non correre a far pace con Antonio, a dirgli in lacrime: sì, hai ragione, non so cosa sono e cosa veramente voglio, ti uso e poi ti butto ma non è colpa mia, mi sento mezza e mezza, perdonami – che Nino mi tirasse in modo esclusivo dentro le cose che sapeva, dentro le sue capacità, che mi riconoscesse sua simile. Perciò quasi gli tolsi la parola di bocca e, mentre lui si sforzava di riprendere il discorso interrotto, elencai i libri che fin dall’inizio dell’anno la professoressa mi

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aveva prestato, i consigli che mi aveva dato. Fece cenno di sì, un po’

imbronciato, si ricordò che la professoressa, tempo prima, aveva prestato uno di quei testi anche a lui e cominciò a parlarmene. Ma io avevo sempre più urgenza di gratificazioni che mi distraessero da Antonio, e gli chiesi senza alcun nesso: «La rivista quando esce?».

Mi fissò con uno sguardo incerto, lievemente in apprensione: «È uscita un paio di settimane fa».

Ebbi un sussulto di gioia, gli chiesi: «Dove la trovo?».

«La vendono alla libreria Guida. Comunque te la posso procurare io».

«Grazie».

Esitò, poi disse:

«Il tuo pezzo però non l’hanno messo, è risultato che non c’era spazio».

Alfonso ebbe subito un sorriso di sollievo, mormorò: «Meno male».

Are sens