Quella è la mia ricchezza, cercai di convincermi. E infatti in quell’anno i professori, tutti, ripresero a lodarmi. Le pagelle furono sempre più brillanti e persino il corso teologico per corrispondenza andò benissimo, ebbi in premio una Bibbia con la copertina nera.
Sfoggiai i miei successi come se fossero il braccialetto d’argento di mia madre, eppure con quella bravura non sapevo cosa farci. In classe non c’era nessuno con cui potessi ragionare delle cose che leggevo, delle idee che mi venivano in mente. Alfonso era un ragazzo diligente, dopo il cedimento dell’anno precedente s’era rimesso in carreggiata ed era più che sufficiente in tutte le materie. Ma quando cercavo di riflettere con lui sui Promessi sposi, o sui romanzi meravigliosi che continuavo a prendere nella biblioteca del maestro Ferraro, o persino sullo Spirito Santo, si limitava ad ascoltare e per timidezza o per insipienza non diceva niente che mi stimolasse ulteriori pensieri. In più, mentre nelle interrogazioni usava un buon italiano, a tu per tu non usciva mai dal dialetto e in dialetto era difficile ragionare sulla corruzione della giustizia terrena, come ben si vedeva durante il pranzo in casa di don Rodrigo, o sui rapporti tra Dio, lo Spirito Santo e Gesù, che pur essendo una persona sola secondo me quando si scomponevano in tre dovevano per forza ordinarsi secondo una gerarchia, e allora chi veniva per primo, chi per ultimo?
Presto mi tornò in mente ciò che una volta mi aveva detto Pasquale: il mio, anche se era un liceo classico, non doveva essere dei migliori. Conclusi che aveva ragione. Raramente vedevo le mie compagne di scuola ben vestite come le ragazze di via dei Mille. E non succedeva mai che venissero a
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prenderle, all’uscita, giovani elegantemente abbigliati, con automobili più lussuose di quelle di Marcello o di Stefano. Anche i meriti intellettuali scarseggiavano. L’unico ragazzo che aveva intorno a sé una fama simile alla mia era Nino, ma ormai, vista la freddezza con cui lo avevo trattato, filava via a testa bassa, non mi guardava nemmeno. Che fare, allora?
Avevo bisogno di esprimermi, la testa era affollata. Ricorrevo a Lila, specialmente quando a scuola era vacanza. Ci incontravamo, parlavamo tra noi. Le dicevo dettagliatamente delle lezioni, dei professori. Lei mi ascoltava con attenzione, e io speravo che si incuriosisse e tornasse alla fase in cui in segreto o palesemente correva subito a procurarsi i libri che le avrebbero permesso di tenermi dietro. Ma non successe mai, era come se una parte di lei tenesse saldamente al guinzaglio l’altra parte. Emerse invece presto una sua tendenza a intervenire di getto, in genere in modo ironico. Una volta, tanto per fare un esempio, le dissi del mio corso teologico e buttai lì, per impressionarla con le questioni su cui mi arrovellavo, che dello Spirito Santo non sapevo cosa pensare, non mi era chiara la sua funzione. «Cos’è» ragionai ad alta voce, «un’entità subordinata, al servizio sia di Dio che di Gesù, tipo un messaggero? O un’emanazione delle prime due persone, un loro fluido miracoloso? Ma, nel primo caso, com’è possibile che un’entità che fa il messaggero poi è tutt’uno con Dio e suo figlio? Non sarebbe come dire che mio padre che fa l’usciere al comune è tutt’uno col sindaco, col comandante Lauro? E se invece si guarda al secondo caso, be’, un fluido, il sudore, la voce sono parte della persona da cui promanano: che senso ha, dunque, ritenere lo Spirito Santo separato da Dio e da Gesù? O è lo Spirito Santo la persona più importante e le altre due sono un suo modo d’essere, o non capisco qual è la sua funzione». Lila, mi ricordo, si stava preparando per uscire con Stefano: andavano a un cinema del centro insieme a Pinuccia, a Rino e ad Alfonso. La guardavo mentre metteva una gonna nuova, una giacca nuova, ed era proprio un’altra persona ormai, perfino le caviglie non erano più due stecchi. Tuttavia vidi che gli occhi le si rimpicciolivano come quando cercava di afferrare qualcosa di sfuggente. Disse in dialetto: «Tu perdi ancora tempo con queste cose, Lenù? Noi stiamo volando sopra una palla di fuoco.
La parte che s’è raffreddata galleggia sulla lava. Su questa parte costruiamo i palazzi, i ponti e le strade. Ogni tanto la lava esce dal Vesuvio oppure fa venire un terremoto che distrugge tutto. Ci sono microbi dovunque che ti fanno ammalare e morire. Ci sono le guerre. C’è una miseria in giro che ci rende tutti cattivi. Ogni secondo può succedere qualcosa che ti fa soffrire in
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un modo che non hai mai abbastanza lacrime. E tu che fai? Un corso teologico in cui ti sforzi di capire che cos’è lo Spirito Santo? Lascia stare, è stato il Diavolo a inventarsi il mondo, non il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Vuoi vedere il filo di perle che m’ha regalato Stefano?». Parlò così, grossomodo, confondendomi. E non solo in quella circostanza, ma sempre più spesso, finché quel tono si stabilizzò, diventò il suo modo di tenermi testa. Se io buttavo lì qualcosa sulla Santissima Trinità, lei con poche battute frettolose ma quasi sempre bonarie cancellava ogni possibile conversazione e passava a mostrarmi i doni di Stefano, l’anello di fidanzamento, la collana, un vestito nuovo, un cappellino, mentre le cose che mi appassionavano, con cui mi facevo bella coi professori tanto che loro mi consideravano brava, si afflosciavano in un angolo prive di senso. Lasciavo perdere idee, libri.
Passavo ad ammirare tutti quei regali in contrasto con la solita casa povera di Fernando lo scarparo; mi provavo gli abiti e gli oggetti di valore; prendevo quasi subito atto che addosso a me non sarebbero mai stati bene come a lei; e me la battevo.
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44.
Nel ruolo di fidanzata, Lila fu molto invidiata e causò non poco scontento.
Del resto il suo modo d’essere aveva infastidito quando era una bambina smunta, figuriamoci adesso che era una ragazza molto fortunata. Lei stessa mi raccontò di una crescente ostilità della madre di Stefano e soprattutto di Pinuccia. Le due donne portavano pensieri cattivi nitidamente stampati in faccia. Chi si credeva di essere la figlia dello scarparo? Quale pozione malefica aveva fatto bere a Stefano? Com’è che appena lei apriva bocca, lui subito apriva il portafoglio? Vuol venire a fare la padrona in casa nostra?
Se Maria si limitava a un broncio silenzioso, Pinuccia non si conteneva, esplodeva rivolgendosi così al fratello:
«Perché a lei compri tutto e a me non solo non m’hai mai comprato niente, ma anzi, appena mi prendevo qualcosa di bello, mi hai sempre criticata dicendo che facevo spese inutili?».
Stefano sfoderava il suo mezzo sorriso tranquillo e non replicava. Ma presto, coerente con la sua linea accomodante, passò a fare regali anche alla sorella. Fu così che cominciò una gara tra le due ragazze, andavano dal parrucchiere insieme, si compravano vestiti identici. Questo però non fece che inasprire ancora di più Pinuccia. Non era brutta, aveva qualche anno più di noi, forse era meglio formata, ma l’effetto che qualsiasi veste o oggetto facevano addosso a Lila non era nemmeno paragonabile con l’effetto addosso a lei. La prima a rendersene conto fu sua madre. Maria, quando vedeva Lila e Pinuccia pronte per uscire, con pettinature simili, con abiti simili, trovava sempre il modo di divagare e arrivare per vie traverse, con toni fintamente bonari, a criticare la futura nuora per qualcosa che aveva fatto giorni prima, lasciare la luce accesa in cucina o il rubinetto aperto dopo aver preso un bicchiere d’acqua. Poi si girava dall’altra parte come se avesse molto da fare e borbottava nera:
«Tornate presto».
Noi ragazze del rione avemmo presto problemi non diversi. Nei giorni di festa Carmela, che insisteva a farsi chiamare Carmen, e Ada, e Gigliola,
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presero ad agghindarsi senza dirlo, senza dirselo, in competizione con Lila.
Gigliola soprattutto, che lavorava nella pasticceria e che sebbene non ufficialmente s’era messa con Michele Solara, si comprava e si faceva comprare apposta belle cose da sfoggiare a passeggio o in automobile. Ma non c’era gara, Lila pareva irraggiungibile, una figurina ammaliante in controluce.
In principio provammo a trattenerla, a imporle le vecchie abitudini.
Tirammo Stefano nel nostro gruppo, lo coccolammo, lo circuimmo, e lui sembrò contento, tant’è vero che un sabato, forse spinto da una sua simpatia per Antonio e Ada, disse a Lila: «Vedi se Lenuccia e i figli di Melina domani sera vengono a mangiare qualcosa con noi». Per “noi” intendeva loro due più Pinuccia e Rino, che ormai ci teneva molto a passare il tempo libero col futuro cognato. Accettammo, ma fu una serata complicata. Ada, temendo di sfigurare, si fece prestare un vestito da Gigliola. Stefano e Rino scelsero non una pizzeria ma un ristorante a Santa Lucia. Poiché né io né Antonio né Ada eravamo mai stati al ristorante, roba per signori, fummo vinti dall’ansia: come vestirsi, quanto sarebbe costato? Mentre loro quattro uscirono con la Giardinetta, noi arrivammo in autobus fino a piazza Plebiscito e il resto del percorso lo facemmo a piedi. Una volta a destinazione, loro ordinarono con disinvoltura moltissimi piatti, noi quasi niente per paura che il conto diventasse troppo alto per le nostre possibilità. Rimanemmo quasi sempre zitti, perché Rino e Stefano parlarono soprattutto di soldi e non pensarono mai a coinvolgere in chiacchiere diverse almeno Antonio. Ada, non rassegnata alla marginalità, per tutta la serata cercò di attrarre l’attenzione di Stefano facendogli smancerie eccessive che disturbarono suo fratello. Alla fine, quando bisognò pagare, scoprimmo che ci aveva già pensato il salumiere e, mentre la cosa non turbò affatto Rino, Antonio tornò arrabbiato a casa perché pur essendo coetaneo di Stefano e del fratello di Lila, pur lavorando come loro, si era sentito trattato da pezzente. Ma la cosa più significativa fu che io e Ada, con sentimenti diversi, ci accorgemmo che in un luogo pubblico, fuori del rapporto amichevole a tu per tu, non sapevamo cosa dire a Lila, come trattarla. Era così ben truccata, così ben vestita, che pareva adeguata alla Giardinetta, alla decappottabile, al ristorante di Santa Lucia, ma ormai fisicamente inadatta a salire in metropolitana insieme con noi, a viaggiare in autobus, a girare a piedi, a prendere una pizza in corso Garibaldi, ad andare al cinema parrocchiale, a ballare a casa di Gigliola.
Quella sera risultò evidente che Lila stava cambiando stato. Nei giorni, nei
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mesi, diventò una signorina che imitava le modelle delle riviste di moda, le ragazze della televisione, le fanciulle che aveva visto a passeggio per via Chiaia. A vederla, sprigionava un bagliore che pareva uno schiaffo violentissimo in faccia alla miseria del rione. Il corpo della ragazzina di cui ancora c’erano tracce quando avevamo tessuto insieme la trama che l’aveva portata al fidanzamento con Stefano fu cacciato presto in territori bui. Alla luce del sole apparve invece una giovane donna che, quando la domenica usciva al braccio del suo fidanzato, sembrava applicare le clausole di un loro accordo di coppia e Stefano, coi suoi regali, pareva voler dimostrare al rione che, se Lila era bella, poteva esserlo sempre di più; e lei sembrava aver scoperto la gioia di attingere alla fonte inesauribile della sua bellezza e sentire ed esibire che nessun profilo ben disegnato poteva contenerla in modo definitivo, tanto che una nuova pettinatura, un nuovo abito, un nuovo trucco degli occhi o della bocca erano solo confini sempre più avanzati che dissolvevano i precedenti. Stefano pareva cercare in lei il simbolo più evidente del futuro di agi e potere a cui tendeva; e lei sembrava usare il sigillo che lui le stava imponendo per mettere al sicuro se stessa, suo fratello, i suoi genitori, gli altri parenti, da tutto ciò che aveva confusamente affrontato e sfidato fin da piccola.
Non sapevo ancora niente di quel che in segreto, tra sé e sé, dopo la brutta esperienza del Capodanno, lei chiamava smarginatura. Ma conoscevo il racconto della pentola esplosa, era sempre in agguato in qualche angolo della mia testa, ci pensavo, ci ripensavo. E mi ricordo che a casa, una sera, rilessi apposta la lettera che mi aveva mandato a Ischia. Quanto era seducente quel suo modo di raccontare di sé e come pareva ormai lontanissimo. Dovetti prendere atto che la Lila che mi aveva scritto quelle parole era scomparsa.
Nella lettera c’era ancora colei che aveva scritto La fata blu, la ragazzina che aveva imparato il latino e il greco da sola, quella che aveva divorato mezza biblioteca del maestro Ferraro, perfino quella che aveva disegnato le scarpe incorniciate nella calzoleria. Ma nella vita d’ogni giorno non la vedevo, non la sentivo più. La nervosa, aggressiva Cerullo si era come immolata. Pur seguitando sia io che lei ad abitare nello stesso rione, pur avendo avuto la stessa infanzia, pur vivendo entrambe il nostro quindicesimo anno, eravamo finite all’improvviso in due mondi diversi. Io mi stavo mutando, mentre i mesi correvano via, in una ragazza sciatta, arruffata, occhialuta, china su libri sbrindellati che emanavano il malodore dei volumi presi con grandi sacrifici al mercato dell’usato o procurati dalla maestra Oliviero. Lei passava al
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braccio di Stefano pettinata come una diva, vestita con abiti che la facevano sembrare un’attrice o una principessa.
La guardavo dalla finestra, sentivo che la sua forma precedente s’era rotta e ripensavo a quel brano bellissimo della lettera, al rame crepato e accartocciato. Era un’immagine che ormai utilizzavo di continuo, ogni volta che avvertivo una frattura dentro di lei o dentro di me. Sapevo – forse speravo – che nessuna forma avrebbe mai potuto contenere Lila e che presto o tardi avrebbe spaccato tutto un’altra volta.
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45.
Dopo la brutta serata del ristorante a Santa Lucia non ci furono altre occasioni come quelle, e non perché i due fidanzati non tornassero a invitarci, ma perché noi ci sottraemmo ora con una scusa, ora con un’altra. Invece, quando i compiti non mi toglievano ogni energia, mi lasciavo tirar dentro a un ballo casalingo, a una pizza con tutto il gruppo di una volta. Preferivo uscire, però, solo quando ero sicura che sarebbe venuto anche Antonio, il quale da qualche tempo si dedicava a me in modo totale, con una corte discreta, piena di attenzioni. Certo, la pelle del viso era lucida e piena di punti neri, i denti qua e là bluastri, le mani tozze, dita robuste con le quali una volta aveva svitato senza sforzo i bulloni della ruota bucata di una vecchissima auto che s’era procurato Pasquale. Ma aveva capelli ondulati nerissimi che ti veniva voglia di accarezzare, e pur essendo molto timido le rare volte che apriva bocca diceva cose spiritose. E del resto era l’unico che si accorgesse di me. Enzo compariva raramente, aveva una sua vita di cui sapevamo poco o niente, ma quando c’era si dedicava senza mai esagerare, al suo modo distaccato, lento, a Carmela. Quanto a Pasquale, sembrava aver perso interesse per le ragazze dopo il rifiuto di Lila. Faceva pochissimo caso persino a Ada, che con lui era molto smorfiosa, anche se ripeteva di continuo che non ce la faceva più a vedere sempre le nostre brutte facce.
Naturalmente in quelle serate si finiva presto o tardi a parlare di Lila, anche se pareva che nessuno avesse voglia di nominarla: i maschi erano tutti un po’
delusi, ciascuno di loro avrebbe voluto essere al posto di Stefano. Ma il più infelice era Pasquale: se non avesse provato un odio di vecchissima data nei confronti dei Solara, probabilmente si sarebbe schierato pubblicamente con Marcello contro la famiglia Cerullo. Le sue sofferenze d’amore gli scavavano dentro e anche solo intravedere Lila e Stefano insieme, gli toglieva la gioia di vivere. Tuttavia era per sua natura un ragazzo di buoni sentimenti e di buoni pensieri, sicché stava attentissimo a tenere sotto controllo le proprie reazioni e a schierarsi secondo giustizia. Quando si era saputo che Marcello e Michele avevano affrontato Rino, una sera, e pur senza sfiorarlo nemmeno con un dito
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lo avevano coperto di insulti, Pasquale aveva aderito senza mezzi termini alle ragioni di Rino. Quando si era saputo che Silvio Solara, il padre di Michele e di Marcello, era andato lui in persona nella calzoleria ristrutturata di Fernando e gli aveva rimproverato pacatamente di non aver saputo educare bene la figlia, e quindi, guardandosi intorno, aveva osservato che lo scarparo avrebbe potuto fabbricare tutte le scarpe che voleva, ma poi dove sarebbe andato a venderle, non avrebbe mai trovato un negozio che gliele pigliasse, senza contare che con tutta quella colla che c’era in giro, con tutto quel filo e pece e forme di legno e suole e suolette, non ci voleva niente perché prendesse fuoco ogni cosa, Pasquale si era ripromesso, in caso d’incendio nella calzoleria Cerullo, di andare con un po’ di suoi compagni fidati a bruciare il bar-pasticceria Solara. Ma su Lila era critico. Diceva che sarebbe dovuta scappare di casa piuttosto che accettare che Marcello andasse lì a farle la corte tutte le sere. Diceva che la televisione l’avrebbe dovuta spaccare col martello e non guardarsela insieme a chi si sapeva che l’aveva comprata solo per avere lei. Diceva, infine, che era una ragazza troppo intelligente per essersi veramente innamorata di un baccalà ipocrita come Stefano Carracci.
Io in quelle occasioni ero l’unica che non stava zitta ma disapprovava esplicitamente le critiche di Pasquale. Ribattevo con cose tipo: non è mica facile scappare di casa; non è mica facile mettersi contro la volontà delle persone a cui vuoi bene; non è mica facile niente, tant’è vero che critichi lei invece di prendertela col tuo amico Rino: è stato lui a ficcarla in quel guaio con Marcello, e se Lila non avesse trovato il modo di tirarsi fuori, Marcello se lo sarebbe dovuto sposare. Concludevo infine col panegirico di Stefano, che di tutti quanti loro maschi che conoscevano Lila fin da piccola e le volevano bene era stato l’unico ad avere il coraggio di sostenerla e aiutarla.