"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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57.

Arrivò il 12 marzo, una giornata mite, già primaverile. Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi, a pettinarsi, a vestirsi.

Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul bordo del letto in mutande e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che pareva il corpo di una morta; davanti, sul pavimento a esagoni, c’era la conca di rame ricolma d’acqua fumante. Mi chiese a bruciapelo:

«Secondo te sto sbagliando?».

«A far che?».

«A sposarmi».

«Pensi ancora alla storia del compare di fazzoletto?».

«No, penso alla maestra. Perché non mi ha voluto far entrare?».

«Perché è una vecchia bisbetica».

Stette zitta per un po’ a fissare l’acqua che brillava nella conca, poi disse:

«Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare».

«Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito».

«No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre».

Feci un risolino nervoso, poi dissi: «Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono».

«Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine».

Si alzò, si tolse mutande e reggiseno, disse: «Dài, aiutami, che sennò faccio tardi».

Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere la testimone coinvolta della sua bellezza di sedicenne poche ore prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola.

Allora fu solo una tumultuosa sensazione di sconvenienza necessaria, una condizione in cui non si può girare lo sguardo dall’altra parte, non si può allontanare la mano senza riconoscere il proprio turbamento, senza dichiararlo proprio ritraendosi, senza quindi entrare in conflitto con

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l’imperturbata innocenza di chi ti sta turbando, senza esprimere proprio col rifiuto la violenta emozione che ti sconvolge, sicché ti obblighi a restare, a lasciarle lo sguardo sulle spalle di ragazzo, sui seni coi capezzoli intirizziti, sui fianchi stretti e le natiche tese, sul sesso nerissimo, sulle gambe lunghe, sulle ginocchia tenere, sulle caviglie ondulate, sui piedi eleganti; e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia, intorno il mobilio miserabile, su un pavimento sconnesso chiazzato d’acqua, e ti agita il cuore, ti infiamma le vene.

La lavai con gesti lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda, calma. Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei, baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la sporcasse nel corso della notte. La immaginai, nuda com’era in quel momento, avvinta al marito, nel letto della nuova casa, mentre il treno sferragliava sotto le loro finestre e la carne violenta di lui le entrava dentro con un colpo netto, come il tappo di sughero spinto dal palmo dentro il collo di un fiasco di vino. E mi sembrò all’improvviso che l’unico rimedio contro il dolore che stavo provando, che avrei provato, era trovare un angolo abbastanza appartato perché Antonio facesse a me, nelle stesse ore, la stessa identica cosa.

L’aiutai ad asciugarsi, a vestirsi, a indossare l’abito da sposa che io – io, pensai con un misto di fierezza e sofferenza – avevo scelto per lei. La stoffa diventò viva, sul suo candore corse il calore di Lila, il rosso della bocca, gli occhi scurissimi e duri. Alla fine si infilò le scarpe da lei stessa disegnate.

Pressata da Rino, che se non le avesse calzate ci avrebbe sentito una specie di tradimento, se ne era scelto un paio col tacco basso, per evitare di sembrare troppo più alta di Stefano. Si guardò allo specchio sollevando un po’ il vestito.

«Sono brutte» disse.

«Non è vero».

Rise in modo nervoso.

«Ma sì, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi».

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Si girò con un’espressione improvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?».

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58.

In cucina, ad aspettarci impazienti, già pronti da un pezzo, c’erano Fernando e Nunzia. Non li avevo mai visti così curati nell’aspetto. A quell’epoca i suoi, i miei, tutti i genitori, mi sembravano vecchi. Non facevo gran differenza tra loro e i nonni materni, quelli paterni, creature che ai miei occhi avevano tutte una sorta di vita fredda, un’esistenza senza niente in comune con la mia, con quella di Lila, di Stefano, di Antonio, di Pasquale. Le persone veramente divorate dal calore dei sentimenti, dalla foga dei pensieri, eravamo noi. Solo adesso, mentre scrivo, mi rendo conto che Fernando a quell’epoca non doveva avere più di quarantacinque anni, Nunzia era sicuramente di qualche anno più giovane, e insieme, quella mattina, lui in camicia bianca e abito scuro, il volto di Randolph Scott, e lei tutta in azzurro, con un cappellino azzurro e la veletta azzurra, facevano una gran bella figura. Stesso discorso per i miei genitori, sull’età dei quali posso essere più precisa: mio padre aveva trentanove anni, mia madre trentacinque. Li guardai a lungo, in chiesa.

Sentii con fastidio che, quel giorno, i miei successi nello studio non li consolavano nemmeno un poco, e anzi provavano, soprattutto a mia madre, che si trattava di un’inutile perdita di tempo. Quando Lila, splendida nel nimbo di abbagliante candore del suo abito e del velo vaporoso, avanzò per la chiesa della Sacra Famiglia al braccio dello scarparo e andò a raggiungere Stefano, bellissimo, sull’altare pieno di fiori – beato il fioraio che li aveva forniti in abbondanza –, mia madre, anche se il suo occhio ballerino pareva rivolto altrove, mi guardò per farmi pesare che io ero lì, occhialuta, lontana dal centro della scena, mentre la mia amica cattiva s’era conquistata un marito agiato, un’attività economica per la famiglia, una casa sua nientemeno di proprietà, con la vasca da bagno, la ghiacciaia, la televisione e il telefono.

La cerimonia fu lunga, il parroco la fece durare un’eternità.

All’ingresso in chiesa i parenti e gli amici dello sposo si erano disposti tutti insieme da un lato, i parenti e gli amici della sposa dall’altro. Il fotografo fece tutto il tempo un numero infinito di foto – flash, riflettori – mentre un suo

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giovane

aiutante filmava la funzione nelle fasi salienti.

Antonio mi sedette devotamente accanto tutto il tempo, col suo abito nuovo di sartoria, lasciando a Ada, seccatissima perché, in quanto commessa della salumeria dello sposo, avrebbe aspirato a ben altra collocazione, il compito di accomodarsi in fondo accanto a Melina e sorvegliarla, insieme agli altri fratelli. Una o due volte mi sussurrò qualcosa all’orecchio, ma non gli risposi. Doveva limitarsi a starmi accanto senza mostrare particolare intimità, per evitare pettegolezzi. Corsi con lo sguardo per la chiesa affollata, la gente si annoiava e come me si guardava continuamente intorno. C’era un profumo intenso di fiori, un odore di abiti nuovi. Gigliola era bellissima, bellissima anche Carmela Peluso. E i ragazzi non erano da meno. Enzo e soprattutto Pasquale parevano voler dimostrare che lì, sull’altare, accanto a Lila, avrebbero saputo fare una figura migliore di Stefano. Quanto a Rino, mentre il muratore e il fruttivendolo se ne stavano nel fondo della chiesa come sentinelle della buona riuscita della cerimonia, lui, il fratello della sposa, rompendo l’ordine degli schieramenti familiari s’era andato a collocare accanto a Pinuccia, nell’area dei parenti dello sposo, anche lui perfetto nell’abito nuovo, le scarpe Cerullo ai piedi, luccicanti quanto i capelli imbrillantinati. Che sfarzo. Era evidente che chiunque avesse ricevuto la partecipazione non aveva voluto mancare e anzi era intervenuto vestito da gran signore, cosa che, per quel che ne sapevo, per quello che tutti sapevano, significava di fatto che non pochi – forse Antonio per primo, che mi sedeva accanto – erano dovuti

andare a chiedere soldi in prestito. Guardai allora Silvio Solara, grosso, in abito scuro, in piedi dal lato dello sposo, molto oro scintillante ai polsi.

Guardai sua moglie Manuela, vestita di rosa, stracarica di gioie, che stazionava a lato della sposa. I soldi dello sfoggio venivano di lì. Morto don Achille, erano quell’uomo di colorito paonazzo, occhi azzurri, molto stempiato, e quella donna magra, col naso lungo e le labbra sottili, a prestare denaro a tutto il rione (o, per dir meglio, era Manuela a gestire i lati pratici di quell’attività: famoso e temuto era il registro con copertina rossa dentro cui lei segnava cifre, scadenze). Il matrimonio di Lila era stato di fatto un affare non solo per il fioraio, non solo per il fotografo, ma soprattutto per quella

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coppia, che tra l’altro aveva fornito anche la torta, anche i confetti delle bomboniere.

Lila, mi accorsi, non li guardò mai. Non si girò mai nemmeno verso Stefano, fissò solo il prete. Pensai che visti così, di spalle, non erano una bella coppia. Lila era più alta, lui più basso. Lila spandeva intorno un’energia che nessuno poteva ignorare, lui pareva un ometto sbiadito. Lila sembrava estremamente concentrata, come se fosse impegnata a capire fino in fondo cosa significava davvero quel rituale, lui invece ogni tanto si girava verso sua madre o scambiava risolini con Silvio Solara o si grattava lievemente in testa.

A un certo punto fui presa dall’ansia. Pensai: e se Stefano davvero non fosse quello che pare? Ma non andai fino in fondo a quel pensiero per due motivi.

Innanzitutto i due sposi si dissero sì in modo deciso e limpido, nella commozione generale: si scambiarono gli anelli, si baciarono, dovetti prendere atto che Lila si era davvero sposata. E poi successe che di colpo non badai più agli sposi. Mi resi conto che avevo intravisto tutti tranne Alfonso, lo cercai con lo sguardo tra i parenti dello sposo, tra quelli della sposa, e lo trovai in fondo alla chiesa, quasi nascosto da una colonna.

Gli feci un cenno, rispose, si mosse verso di me. Ma dietro di lui comparve in gran pompa Marisa Sarratore. E subito dopo, allampanato, mani in tasca, arruffato, con la giacchetta e i pantaloni stazzonati che portava a scuola, Nino.

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59.

Il seguito fu un confuso affollarsi intorno agli sposi, che uscivano dalla chiesa accompagnati da suoni vibrati d’organo, flash del fotografo. Lila e Stefano sostarono sul sagrato tra baci, abbracci, il caos delle automobili e i nervosismi dei parenti che venivano lasciati in attesa, mentre altri, nemmeno consanguinei – ma più importanti, più amati, più riccamente vestiti, le signore con cappelli particolarmente stravaganti? – erano caricati subito sulle auto e portati in via Orazio, al ristorante.

Are sens