«Mi porti a prendere il gelato?».
Marcello non credette alle proprie orecchie.
«Il gelato? Senza mangiare prima? Io e te?». E chiese subito a Nunzia:
«Signora, volete venire pure voi?».
Nunzia accese la televisione e disse: «No, grazie, Marcè. Ma non ci mettete troppo. Dieci minuti soltanto, andate e venite».
«Sì» promise lui felice, «grazie».
Ripeté grazie almeno quattro volte. Gli pareva che il momento tanto atteso fosse venuto, Lila stava per dirgli di sì.
Ma appena fuori della palazzina lei lo affrontò e scandì, con la gelida cattiveria che le veniva bene fin dai primi anni di vita: «Non ti ho mai detto che ti volevo».
«Lo so. Ma adesso mi vuoi?».
«No».
Marcello, che era grande e grosso, un sano, sanguigno ragazzone di ventitré anni, si appoggiò al palo di un lampione col cuore spezzato.
«Proprio no?».
«No. Voglio bene a un altro».
«Chi è?».
«Stefano».
«Lo sapevo già, ma non ci potevo credere».
«Ci devi credere, è così».
«Ammazzerò te e lui».
«Con me ci puoi provare subito».
Marcello si staccò dal lampione, di furia, ma con una specie di rantolo si morse a sangue la destra chiusa a pugno.
«Ti voglio troppo bene e non lo posso fare».
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«Allora fallo fare a tuo fratello, a tuo padre, a qualche amico vostro, può essere che loro sono capaci. Però chiarisci a tutti che dovete ammazzare prima me. Perché se toccate chiunque altro mentre sono viva, sono io che vi ammazzo, e lo sai che lo faccio, comincio con te».
Marcello continuò a mordersi il dito con accanimento. Poi ebbe una specie di singhiozzo represso che gli scosse il petto, girò le spalle e se ne andò.
Lei gli gridò dietro:
«Manda qualcuno a prendersi la televisione, non ne abbiamo bisogno».
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41.
Tutto accadde in poco più di un mese e Lila alla fine mi sembrò felice.
Aveva trovato uno sbocco al progetto delle scarpe, aveva dato un’opportunità a suo fratello e a tutta la famiglia, si era sbarazzata di Marcello Solara ed era diventata la promessa sposa del giovane agiato più stimabile del rione. Cosa poteva volere di più?
Niente. Aveva tutto. Quando ricominciò la scuola ne sentii il grigiore più del solito. Fui riassorbita dallo studio e, per evitare che i professori potessero cogliermi impreparata, tornai a sgobbare fino alle ventitré e a mettermi la sveglia alle cinque e mezza. Vidi Lila sempre di meno.
In compenso si rinsaldarono i rapporti col fratello di Stefano, Alfonso. Pur lavorando in salumeria tutta l’estate, aveva superato gli esami di riparazione in modo brillante, con sette in ciascuna delle materie in cui era stato rimandato: latino, greco e inglese. Gino, che se ne era augurato la bocciatura per poter ripetere insieme il quarto ginnasio, ci rimase malissimo. Quando si accorse che noi due, ormai in quinto ginnasio, andavamo e tornavamo insieme da scuola tutti i giorni, si inasprì ancora di più e diventò meschino.
Non rivolse più la parola né a me, sua ex fidanzata, né ad Alfonso, suo ex compagno di banco, e questo sebbene si trovasse nell’aula accanto alla nostra e ci incrociassimo spesso per i corridoi, oltre che per le strade del rione. Ma fece anche di più, mi arrivò voce, presto, che raccontava brutte cose su di noi.
Diceva che io mi ero innamorata di Alfonso e lo toccavo durante le lezioni anche se Alfonso non mi corrispondeva, perché, come sapeva bene lui che gli era stato accanto per un anno, non gli piacevano le femmine, preferiva i maschi. Riferii la cosa al piccolo Carracci aspettandomi che andasse a spaccare la faccia a Gino come era obbligatorio in quei casi, ma lui si limitò a dire con tono sprezzante, in dialetto: «Lo sanno tutti che il ricchione è lui».
Alfonso fu una gradevole, provvidenziale scoperta. Emanava
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un’impressione di pulito e di ben educato. Sebbene fosse nei tratti molto simile a Stefano, stessi occhi stesso naso stessa bocca; sebbene, crescendo, il suo corpo si stesse configurando allo stesso identico modo, testa grande, gambe un po’ corte in rapporto al busto; sebbene nello sguardo e nei gesti manifestasse la stessa mitezza, in lui sentivo la più totale assenza di quella determinazione che invece era acquattata in ogni cellula di Stefano e che alla fine, secondo me, riduceva la sua cortesia a una sorta di nascondiglio da cui balzare fuori all’improvviso. Alfonso era un ragazzo tranquillizzante, quella specie di essere umano, rara nel rione, da cui sai di non doverti aspettare niente di malvagio. Facevamo il percorso scambiando poche parole ma non provavamo imbarazzo. Aveva sempre ciò che mi serviva e se non ce l’aveva correva a procurarselo. Mi amava senza alcuna tensione e io stessa mi ci affezionai quietamente. Il primo giorno di scuola finimmo per metterci nello stesso banco, cosa audace a quel tempo, e anche se gli altri maschi lo prendevano in giro per come mi stava sempre intorno e le femmine mi chiedevano di continuo se ci eravamo fidanzati, nessuno dei due decise di cambiare posto. Era una persona fidata. Se vedeva che avevo bisogno di tempo mio, o mi aspettava in disparte, oppure mi salutava e se ne andava. Se si accorgeva che volevo che restasse al mio fianco, ci restava anche se aveva altro da fare.
Mi servii di lui per sfuggire a Nino Sarratore. Quando, per la prima volta dopo Ischia, ci vedemmo da lontano, Nino mi venne subito incontro molto amichevolmente, ma lo liquidai con due battute fredde. Eppure mi piaceva moltissimo, se solo appariva la sua figura alta e sottile diventavo rossa e il cuore mi batteva all’impazzata. Eppure, ora che Lila era davvero fidanzata, fidanzata ufficialmente –e con quale fidanzato, un uomo di ventidue anni, non un ragazzino: gentile, deciso, coraggioso –, era più che mai urgente che avessi anch’io un fidanzato invidiabile e riequilibrassi così il nostro rapporto.
Sarebbe stato bellissimo uscire in quattro, Lila col suo promesso sposo, io col mio. Certo, Nino non aveva l’auto rossa decappottabile.
Certo, era uno studente di seconda liceo, non aveva una lira. Ma era alto venti centimetri più di me, mentre Stefano era qualche centimetro più basso di Lila.