– Sire, eri distratto. Di questa città appunto ti stavoracccontando quando m’hai interrotto.
– La conosci? Dov’è? Qual è il suo nome?
– Non ha nome né luogo. Ti ripeto la ragione per cui ladescrivevo: dal numero delle città immaginabili occorreescludere quelle i cui elementi si sommano senza un filoche li connetta, senza una regola interna, una prospettiva,un discorso. È delle città come dei sogni: tutto l’immagi-nabile può essere sognato ma anche il sogno piú inatteso èun rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto,le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ognicosa ne nasconde un’altra.
– Io non ho desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e imiei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.
– Anche le città credono di essere opera della mente odel caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loromura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
– O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere,come Tebe per bocca della Sfinge.
Le città e il desiderio. 5.
Di là, dopo sei giorni e sette notti, l’uomo arriva a Zobeide, città bianca, ben esposta alla luna, con vie che girano su se stesse come in un gomitolo. Questo si racconta della sua fondazione: uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono d’inseguirla. Gira gira oguno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro; decisero di costruire una città come nel sogno. Nella di-Letteratura italiana Einaudi
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Italo Calvino - Le città invisibili sposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse piú scappare.
Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nessuno di loro, né nel sonno né da sveglio, vide mai piú la donna. Le vie della città erano quelle in cui essi andava-no al lavoro tutti i giorni, senza piú nessun rapporto con l’inseguimento sognato. Che del resto era già dimenticato da tempo.
Nuovi uomini arrivarono da altri paesi, avendo avuto un sogno come il loro, e nella città di Zobeide ricono-scevano qualcosa delle vie del sogno, e cambiavano di posto a porticati e a scale perché somigliassero di piú al cammino della donna inseguita e perché nel punto in cui era sparita non le restasse via di scampo.
I primi arrivati non capivano che cosa attraesse questa gente a Zobeide, in qusta brutta città, in questa trap-pola.
Le città e i segni. 4.
Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io anda-vo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fa-re il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe.
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sulta-no. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole piú alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sa-Letteratura italiana Einaudi
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Italo Calvino - Le città invisibili la nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giú per corridoi, scalette e ponti. Nel piú remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi appervero gli occhi inebetiti d’un adole-scente sdaiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.
– Dov’è il sapiente? – Il fumatore indicò fuori della finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’alta-lena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere –. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: so-lo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.
Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fru-ste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e apppena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.
Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo piú alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassú. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.
Letteratura italiana Einaudi
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Italo Calvino - Le città invisibili Le città sottili. 3.
Se Armilla sia cosí perché incompiuta o perché demo-lita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffiti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo bian-cheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si di-rebbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell’arrivo dei muratori; oppure che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti.
Abbandonata prima o dopo essere stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogio-lano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciu-gano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.
La spigazione cui sono arrivato è questa: dei corsi d’acqua incanalati nelle tubature d’Armilla sono rimaste pa-drone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterra-nee, è stato loro facile inoltrarsi nel nuovo regno acquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovi specchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell’acqua.
Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque. Comunque, adesso sembrano contente, queste donnine: al mattino si sentono cantare.
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Italo Calvino - Le città invisibili Le città e gli scambi. 2.
A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.
Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano.
Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggia-to alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Passa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti.
Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qualcosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all’altra e disegnano frecce, stelle, triangoli, finché tutte le combinazioni in un attimo sono esaurite, e altri personagi entrano in scena: un cieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana col ventaglio di piume di struzzo, un efebo, una donna–cannone. Cosí tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendo-ne del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.
Una vibrazione lussuriosa muove continuamente Cloe, la piú casta delle città. Se uomini e donne comin-ciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma di-venterebbe una persona con cui cominciare una storia d’inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d’urti, di op-pressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe.
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