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Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all’amore. Al bujo – era colpa mia? – non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m’ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signorina Caporale me l’aveva data, me l’aveva fatta sedere accanto, e s’era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e – naturalmente – per quelle sofferenze credevo com’ogni altro sciagurato (leggi uomo) d’aver diritto a un compenso, e – poiché l’avevo allato – me l’ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora anch’io…

— Ah!

Mi buttai su la poltrona, con le mani su la faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per tutti!

Rimasi, non so per quanto tempo, lì su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione: che cos’era in fondo ciò che m’era sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione.

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m’era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m’ero anche accorto ch’essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss’anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n’accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de’ miei atti. Troppe cose, senza parlare, le

avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore; non ci s’eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m’ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un’altra vita.

Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque?

Un’ombra d’uomo! E che vita? Finché m’ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l’illusione ch’io stessi vivendo un’altra vita; ma ora che a questa m’ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d’un morto, d’un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso… Lei? No… no… che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida… Ma se pur l’amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte d’ogni riguardo sociale… ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d’un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?

Due colpi all’uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana.

Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento… No?

Perché no?… Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta:

— Ecco, per lei…

— Una lettera?

— Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c’è risposta.

Le tremava la voce. Sorrise.

— Subito, — diss’io; ma un’improvvisa tenerezza mi prese, comprendendo ch’ella era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze; un’angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano le sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai una mano su i capelli.

— Povera Adriana!

— Perché? — mi domandò, sotto la carezza. — Non siamo contenti?

— Sì…

— E allora perché povera?

Ebbi in quel momento un impeto di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di risponderle: «Perché? Senti: io ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se tu vuoi però…». Ma dàlli! Che poteva volere quella mite creatura? Mi premetti forte sul petto la sua testina, e sentii che sarei stato molto più crudele se dalla gioja suprema a cui ella, ignara, si sentiva in quel punto inalzata dall’amore, io l’avessi fatta precipitare nell’abisso della disperazione ch’era in me.

— Perché, — dissi, lasciandola, — perché so tante cose, per cui lei non può esser contenta…

Ebbe come uno smarrimento penosissimo, nel vedersi, così d’un tratto, sciolta dalle mie braccia. Si aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del tu? Mi guardò e, notando la mia agitazione, domandò esitante:

— Cose… che sa lei… per sé, o qui… di casa mia?

Le risposi col gesto: «Qui, qui» per togliermi la tentazione che di punto in punto mi vinceva, di parlare, di aprirmi con lei.

L’avessi fatto! Cagionandole subito quell’unico, forte dolore, gliene avrei risparmiato altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma troppo recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno d’approfondirla bene, e l’amore e la pietà mi toglievano il coraggio d’infrangere così d’un tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell’ombra d’illusione che di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi.

Sentivo poi quanto odiosa sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io, cioè, avevo moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis, io tornavo ad essere Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d’un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte, su lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi, è vero, dichiararmi vivo, allora… Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della moglie, della suocera, dei debiti, d’un’egra e misera esistenza come quella mia. Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m’ero veduta dinanzi libera libera libera, non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle menzogne che con tanto disgusto m’ero veduto costretto a usare, schiava del timore d’essere scoperto, pur senza aver commesso alcun delitto?

Adriana riconobbe che non aveva in casa, veramente, di che esser contenta; ma ora… E con gli occhi e con un mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse rappresentare un ostacolo ciò che per lei era cagione di dolore. «No, è vero?» chiedeva quello sguardo e quel mesto sorriso.

— Oh, ma paghiamo il dottor Ambrosini! — esclamai, fingendo di ricordarmi improvvisamente della nota e del servo che attendeva di là.

Lacerai la busta e, senza pôr tempo in mezzo, sforzandomi d’assumere un tono scherzoso: — Seicento lire! — dissi. — Guardi un po’, Adriana: la

Natura fa una delle sue solite stramberie; per tanti anni mi condanna a portare un occhio, diciamo così, disobbediente; io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e ora per giunta mi tocca a pagare. Le sembra giusto?

Adriana sorrise con pena.

— Forse, — disse, — il dottor Ambrosini non sarebbe contento se lei gli rispondesse di rivolgersi alla Natura per il pagamento. Credo che si aspetti anche d’esser ringraziato, perché l’occhio…

— Le par che stia bene?

Ella si sforzò a guardarmi, e disse piano, riabbassando subito gli occhi:

— Sì… Pare un altro…

— Io o l’occhio?

— Lei.

— Forse con questa barbaccia…

— No… Perché? Le sta bene…

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