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Me lo sarei cavato con un dito, quell’occhio! Che m’importava più d’averlo a posto?

— Eppure, — dissi, — forse esso, per conto suo, era più contento prima.

Ora mi dà un certo fastidio… Basta. Passerà!

Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl’impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s’è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com’essa, anche questa volta, mi venne in ajuto.

Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!

— Come! — esclamai. — Possibile ch’io l’abbia lasciato così?

Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima.

La guardai, e:

— Ma qui… guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!

C’era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.

— Possibile? — esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore.

Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua:

— Hanno rubato?

— Aspetti… aspetti… Com’è possibile? — dissi io.

E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano.

— Quanto? — mi domandò ella, scontraffatta dall’orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare.

— Dodici… dodici mila lire… — balbettai. — Erano sessantacinque…

sono cinquantatré! Conti lei…

Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l’uscio:

— Chiamo il babbo! chiamo il babbo!

— No! — le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. — Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più male… Io non voglio, non voglio! Che c’entra lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché… sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente… Stia buona, via!

E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch’io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m’appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l’audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:

— È inutile! è inutile! — gemeva. — Ladro… ladro… anche ladro!… Tutto congegnato avanti… Ho sentito, nel bujo… m’è nato il sospetto… ma non volli credere ch’egli potesse arrivare fino a tanto…

Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche…

— Ma come mai, — gemette ella, angosciata, — come mai teneva lei tanto denaro, così, in casa?

Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia, dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d’investirlo in qualche modo, d’affidarlo a qualcuno?

che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?

E, per non apparire stupito, fui crudele:

— Potevo mai supporre? — dissi.

Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata:

— Dio! Dio! Dio!

Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch’io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s’era messo, quasi sfidandomi.

E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d’ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E

chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!

Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?

— Come ha potuto farlo? — dissi quasi tra me. — Da che gli è potuto venire tanto ardire?

Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: « E non lo sai? ».

— Ah, già! — feci, comprendendo a un tratto.

— Ma lei lo denunzierà! — esclamò ella, levandosi in piedi. — Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo… Lo denunzierà subito!

Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana – e ora lo intendo bene – non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi

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