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Spariti tutti i domestici, i sei forestieri, Candido e Martino, restarono in un profondo silenzio; infine, proruppe Candido: - Signori, questa è una burla singolare: perché

farvi tutti re? per me io vi confesso che nè io, nè Martino non lo siamo.

Il padrone di Cacambo prese allora a parlare gravemente, e disse in italiano: - Per

me non è punto una burla. Io mi chiamo Acmet III; sono stato gran sultano per più

anni; levai dal trono mio fratello; e mio nipote ne ha levato me; si tagliò la testa a’

miei visiri; io termino i miei giorni nel vecchio serraglio: mio nipote il gran sultano Mahmud mi permette di viaggiare qualche volta per mia salute, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.

Un altro uomo giovine, che era accanto ad Acmet, parlò dopo di lui, e disse: - Io

mi chiamo Ivan; sono stato imperatore di tutte le Russie; fui detronizzato in cuna;

mio padre e mia madre furono rinserrati; io allevato in prigione; qualche volta ho

la permissione di viaggiare accompagnato da coloro che mi guardano, e son

venuto a passare il carnevale a Venezia.

Il terzo disse: - Io son Carlo Odoardo re d’Inghilterra: mio padre mi ha ceduti i suoi diritti al regno; ho combattuto per sostenerlo; è stato strappato il cuore a ottocento de’ miei partigiani e si è tolta loro ogni speranza; sono stato in carcere; or vado a Roma a fare una visita al re mio padre, detronizzato come me, e come mio nonno, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.

Indi il quarto prese a parlare, e disse: - lo son re de Polacchi: la sorte della guerra mi ha privato de’ miei stati ereditari; mio padre provò le stesse avversità; io mi rassegno a]la Provvidenza come il sultano Acmet l’imperator Ivan, e il re Carlo Odoardo, che Dio conceda lor lunga vita; e son venuto a passare il carnevale a Venezia.

Disse il quinto: - Sono ancor io re de’ Polacchi: ho perduto due volte il mio regno

ma la Provvidenza mi ha dato un altro stato, nel quale ho fatto miglior fortuna di

quella che han fatta tutti insieme i re de’ Sarmati sulle sponde della Vistola; io ancora mi rassegno alla Provvidenza, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.

Restava a, parlare il sesto monarca: - Signori, diss’egli io non sono sì gran signore come voi, ma finalmente fui re al pari d’ogni altro; sono Teodoro, eletto re

in Corsica; fui chiamato maestà, e presentemente mi si dà appena del signore; feci batter moneta., ed ora non possiedo un danaro; ebbi due secretari di Stato, ed ora ho appena un servitore; mi vidi sul trono, e poi per lungo tempo in prigione

a Londra sulla paglia; temo d’esser trattato egualmente qui, benchè io sia venuto

come le maestà vostre a passare il carnevale a Venezia.

I cinque altri re ascoltarono questo discorso con una nobile compassione;

ciascuno di essi dette venti zecchini al re Teodoro per comprarsi degli abiti e delle camicie, e Candido gli regalò un diamante di due mila zecchini.

- Chi è dunque, diceano gli altri cinque re, questo semplice particolare che è in istato di dare cento volte più di ciascuno di noi, e che lo dà?

Nell’istante in che s’usciva da tavola, ecco nell’osteria quattro altezze serenissime che avean pure perduti i lor Stati per la sorte della guerra, e che venivano a passare il resto del carnevale a Venezia: ma Candido non ci badò nemmeno, non

pensando ad altro che di andare a trovar la sua cara Cunegonda a Costantinopoli.

CAPITOLO XXVI (torna all’indice)

Viaggio di Candido a Costantinopoli

Il fedele Cacambo avea già ottenuto la permissione da padrone turco, che andava

a ricondurre il sultano Acmet a Costantinopoli, di potere ricevere a bordo Candido

e Martino. L’uno e l’altro vi si trasferirono dopo d’essersi inchinati avanti a sua miserabile altezza. Candido, nell’andare a bordo, disse a Martino: - Ecco intanto

sei re detronizzati, co’ quali abbiamo cenato, e fra questi sei re ve n’è ancora uno

a cui ho fatto l’elemosina, Vi saranno forse altri principi molto più infelici; per me io non no perduto se non cento montoni, e volo nelle braccia a Cunegonda: mio caro

Martino, qualche volta Pangloss avea ragione tutto è bene. - Io lo desidero, rispose Martino. - Ma, ripigliò Candido, è un’avventura ben poco verosimile quella

che ci si è presentata a Venezia; non si era giammai veduto nè udito che sei re

detronizzati si trovassero a cenar insieme all’osteria. - Questo non è più stravagante, disse Martino, di tante altre cose che ci sono accadute. È cosa comunissima che vi sieno de’ re balzati dal trono, e rispetto all’onore che abbiamo

avuto di cenar con loro, è una bagattella che non merita la nostra attenzione.

Appena che Candido fu nel vascello, saltò al collo del suo antico servo, del suo amico Cacambo: - Ebbene, gli disse, che fa Cunegonda? è ella sempre un

prodigio di bellezza? mi ama ella sempre? come sta ella? Tu gli hai senza dubbio

comprato un palazzo a Costantinopoli?

- Mio caro padrone, rispose Cacambo, Cunegonda rigoverna le scodelle sulle

sponde della Propontide, in casa di un principe che ha pochissime scodelle; ella è

schiava in casa d’un antico sovrano chiamato Ragotski, a cui il Gran Turco dà tre

scudi il giorno, e l’asilo; ma ciò che è ben più tristo, si è che ella ha perduta la sua bellezza ed è diventata orribilmente brutta. - Ah! o bella o brutta, dice Candido, io son galantuomo, e il mio dovere è di amarla sempre; ma come mai può ella essersi ridotta in uno stato si miserabile co’ cinque o sei milioni che tu avevi portati? - Buono! dice Cacambo, non mi è abbisognato di dare due milioni al signor don Fernando d’Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza,

governatore di Buenos-Aires, per ottenere Cunegonda? Ed un pirata non ci ha bravamente spogliati di tutto il resto? Questo pirata non ci ha egli condotti al capo

di Matapan, a Milo, a Nicaria, a Samos, a Petra, a Dardanelli, a Marmora, a Scutari? Cunegonda e la vecchia servono quel principe, di cui vi ho parlato, ed io

son schiavo del sultano detronizzato. - Che spaventevoli calamità concatenate le

une alle altre! dice Candido; ma finalmente io ho ancora alcuni diamanti, e libererò facilmente Cunegonda. Ma è un peccato che sia divenuta sì brutta.

Indi rivolgendosi a Martino: - Chi pensate voi che sia più degno di compassione l’imperatore Acmet, l’imperatore Ivan, il re Carlo Odoardo, od io?

- Non lo so, risponde Martino, bisognerebbe che io fossi ne’ loro cuori per saperlo.

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