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in quella galera quattro giovani marsigliesi, cinque preti napolitani, e due frati di Corfù, i quali ci dissero che simili avventure accadevano tutti i giorni. Il signor barone pretendeva d’aver sofferto una ingiustizia maggiore della mia; noi

disputavamo senza fine, e ricevevamo venti nerbate il giorno, quando il

concatenamento degli eventi di quest’universo vi ha a noi condotto.

- Ebbene, mio caro Pangloss, gli dice Candido, quando voi siete stato impiccato,

notomizzato, arruotato, ed avete remato nella galera, avete sempre pensato che

tutto andava ottimamente? - Io son sempre del mio primo sentimento, risponde Pangloss, perchè finalmente essendo io filosofo, non mi conviene il disdirmi.

Leibnitz non può aver torto, e l’armonia prestabilita è la più bella cosa del mondo,

come il pieno e la materia sottile.

CAPITOLO XXVIII (torna all’indice)

Come Candido ritrova Cunegonda e la vecchia.

Mentre Candido, il barone, Pangloss, Martino e Cacambo raccontavano le loro avventure, e ragionando sugli avvenimenti contingenti e non contingenti di

quest’universo, disputavano sugli effetti e le cause, sul mal morale e sul mal fisico, sulla libertà e la necessità, sulle consolazioni che si possono provare trovandosi in galera in Turchia, approdarono sulle rive della Propontide alla casa

del principe dì Transilvania. I primi oggetti che si presentarono loro furono Cunegonda e la vecchia, che stendevano alcuni tovagliuoli sopra le funi per farli

asciugare.

Il barone impallidì a quella vista; il tenero amante Candido vedendo la sua bella Cunegonda imbrunita, cogli occhi scerpellati, il petto risecco, le gote aggrinzite, le braccia abbronzite e scagliose, si ritirò tre passi indietro pieno d’orrore; s’avanzò poi per convenienza, ed ella abbracciò Candido e il suo fratello; fu abbracciata la

vecchia e furono ricomprate tutte due.

V’era un piccolo podere nel vicinato; la vecchia propose a Candido di comprarlo,

aspettando che tutta la truppa avesse un miglior destino. Cunegonda non sapea

d’esser così imbruttita, perchè di ciò niuno l’avea prevenuta. Ella fece ricordare a

Candido le di lui promesse con un parlar sì assoluto che egli non osò di far ripulsa. Egli fece dunque intendere al barone che volea maritarsi colla sua sorella.

Io non soffrirò giammai, disse il barone, una tal bassezza dalla parte sua, e una

tale insolenza dalla vostra: questa infamia non mi sarà giammai rimproverata: i figli di mia sorella non potrebbero entrare nei capitoli d’Alemagna: no, la mia sorella non sposerà giammai altri che un barone dell’impero.

- Cunegonda si gettò a’ suoi piedi, e li bagnò di lagrime; egli fu inflessibile. - Bel mio stivale, gli disse Candido, io ti ho scampato dalla galera, io ti ho pagato il tuo riscatto, io ho pagato quello di tua sorella - ella lavava qui le stoviglie, ella è brutta, io ho la bontà di farla mia moglie, e tu pretendi anche di opportici? io ti riammazzerei, se mi lasciassi vincere dalla collera - Tu puoi pure ammazzarmi, disse il barone, ma non sposerai la mia sorella, me vivente.

CAPITOLO XXIX (torna all’indice)

Conclusione della prima parte.

Candido nel fondo del buon cuore non aveva alcuno stimolo di sposare Cunegonda; ma l’estrema impertinenza del barone lo determinava a concludere il

maritaggio, o Cunegonda lo pressava sì vivamente ch’ei non poteva ritirarsene.

Consultò egli Pangloss, Martino e il fedele Cacambo. Pangloss fece un bel

discorso, col quale ei provava che il barone non aveva alcun diritto sulla sorella, e che ella poteva, secondo tutte le leggi dell’impero, sposar Candido colla mano sinistra.

Martino concluse di gettare il barone nel mare; Cacambo decise che doveasi renderlo al padrone levantino e rimetterlo in galera per poi rimandarlo a Roma al

padre generale col primo bastimento. Il progetto fu trovato assai buono; la vecchia

l’approvò; non se ne disse niente alla sorella, la cosa fu eseguita mediante qualche danaro, e s’ebbe il piacere d’ingannare un gesuita, e di punir l’orgoglio di

un barone tedesco

Egli era ben naturale immaginarsi che dopo tanti disastri, Candido maritato, e in

compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martino, del prudente Cacambo e della vecchia, avendo di più portato tanti diamanti dalla patria degli antichi Incas, dovesse condurre la vita più deliziosa del mondo; ma egli fu tanto truffato dagli ebrei, che non gli restò null’altro che la sua villetta. La sua consorte, divenendo ogni giorno più brutta, era altresì inquieta e insopportabile la vecchia era inferma, e di peggiore umore di Cunegonda. Cacambo che lavorava al giardino e andava a

vendere i legumi a Costantinopoli, era oppresso dalle fatiche e malediceva il suo

destino. Pangloss era in disperazione per non poter fare il bello in qualche università d’Alemagna. Martino poi, era persuaso che si stava ugualmente male da per tutto, e prendeva ogni cosa con pazienza. Candido, Martino e Pangloss disputavano qualche volta sulla metafisica, e sulla morale. Si vedevano spesso passare sotto le finestre della villetta, dei battelli carichi di effendi, di bascià e di cadì, che si mandavano in esilio a Lemno, a Metelino e ad Erzerum, e si vedean

tornare altri cadì, altri bascià e altri effendi, che andavano a occupare i posti degli esiliati. Si vedevano delle teste decentemente impalate, che si andavano a

presentare alla Porta. Questi spettacoli facevano aumentare le dissertazioni; e quando non si disputava, era così eccessiva la noja che la vecchia osò un giorno

dir loro: - Io vorrei sapere qual è la peggiore cosa, o l’essere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra’ Bulgari, l’esser frustato e Impiccato in un auto-da-fè, l’essere notomizzato remare in galera, provare infine tutto le miserie che noi abbiamo passate, oppure il restar qui a non far niente. - Questa è

una gran questione, disse Candido.

Un tal discorso fece nascere nuove riflessioni e Martino soprattutto concluse che

l’uomo era nato per vivere fra le agitazioni dell’inquietudine e nel letargo della noja. Candido non ne conveniva, ma non assicurava nulla.

Pangloss confessava d’aver sempre orribilmente sofferto ma siccome aveva

sostenuto una volta che tutto andava a maraviglia, seguitava a sostenerlo, e non

credeva a niente.

Vi era nel vicinato un dervis famosissimo che passava per uno de’ migliori filosofi della Turchia; essi andarono a consultarlo; Pangloss si fece avanti e disse: -

Maestro, noi veniamo a pregarvi di dirci perchè un animale sì stravagante come

l’uomo è stato formato.

- Di che ti occupi tu? disse il dervis tocca egli a te? - Ma reverendo padre, disse

Are sens