per le spalle, e lo scacciò fieramente. Questo cagionò un grave scandalo, e se ne
fece un processo verbale.
Candido guarì e nella sua convalescenza ebbe una buonissima compagnia a
cenar seco lui. Si giuocava di grosso e Candido si stupiva di veder che non gli venivano mai gli assi; ma non se ne stupiva Martino.
Fra quei che facevano gli onori della città vi era un abatino di Perigord, uno di quei tipi sempre officiosi, sfrontati, adattabili a tutto, che corteggiano i forastieri che raccontan loro l’istoria scandalosa della città e offrono loro i piaceri a ogni prezzo; questo condusse subito Candido e Martino al teatro della Commedia; si recitava una tragedia nuova; Candido si trovò fra alcuni belli spiriti; questo non
gl’impediva di piangere su certe scene perfettamente rappresentate; ma uno de’
ragionatori gli disse in tempo di un intermezzo: - Voi avete torto di piangere: quell’attrice è molto cattiva, l’attore che recita seco è cattivo anch’egli, il contenuto della tragedia è peggiore degli attori, l’autore non sa una parola araba, e intanto la scena è in Arabia; di più egli è un uomo che non crede alle idee innate; io vi farò
vedere domani venti libercoli contro di lui. - Signore, gli dice l’abate di Perigord avete voi osservato quella giovinetta che ha un volto sì attraente, e un personale
sì ben composto? ella non vi costerà che diecimila franchi il mese e cinquantamila
scudi di diamanti.
“- Io non ho tempo di occuparmi di lei, dice Candido perchè son chiamato a Venezia per un affare che mi preme.
La sera, dopo cena, l’insinuante Perigordino raddoppiò le sue convenienze e le sue attenzioni. - Voi avete dunque, signore, una cosa di premura a Venezia. - Sì
signor abbate, dice Candido, bisogna assolutamente che io vada a trovar
madamigella Cunegonda.
E qui impegnato dal piacere di ciò che amava, contò secondo il suo uso una parte
de’ casi suoi con quella illustre wesfaliana.
- Io credo, disse l’abate, che Cunegonda, abbia molto spirito, e che ella scriva delle lettere graziose. - Io non ne ho mai ricevute, disse Candido, perchè figuratevi che, essendo stato scacciato dal castello per amor di lei, io non potei scriverle: che immediatamente dopo, seppi che ella era morta: che in seguito la ritrovai e la perdei, e che le ho inviato un espresso lontan di qui duemila e cinquecento leghe, e ne aspetto la risposta.
L’abate ascoltava attentamente, e pareva un poco pensieroso; ei si licenziò finalmente dai forastieri dopo averli teneramente abbracciati; il giorno appresso riceve Candido, all’alzarsi dal letto, una lettera concepita in questi termini:
“Signore; amante mio carissimo, sono otto, giorni che sono ammalata in questa città; so che voi vi siete; volerei nelle vostre braccia, se io potessi muovermi: ho
saputo il vostro passaggio a Bordeaux; io vi ho lasciato il fedele Cacambo, e la vecchia, che devono ben tosto seguirmi. Il governatore di Buenos-Aires ha preso
tutto, ma mi resta il vostro cuore. La vostra presenza o mi renderà la vita, o mi farà morir di piacere.”
Questa graziosa lettera, questa lettera inaspettata trasportò Candido in una gioja
inesprimibile, e la malattia della sua cara Cunegonda lo oppresse di dolore; diviso
così fra un sentimento e l’altro, ei prende il suo oro, e i suoi diamanti, e si fa condurre con Martino all’albergo ove dimorava Cunegonda. Ivi entra tutto
tremante, tutto agitato; gli palpita il cuore, singhiozza, vuole aprire le cortine del letto, vuol far portare il lume. - Avvertite di non farlo, gli dice la servente: il lume l’ammazza, e immantinente ella serra la cortina - Mia cara Cunegonda, dice Candido piangendo, come state? Se voi non potete vedermi, parlatemi almeno. -
Ella non può parlare, dice la servente.
La dama allora leva una mano pienotta, e Candido la bagna di lacrime; l’empie in seguito di diamanti, e lascia sulla sedia un sacco d’oro.
A mezzo i suoi trasporti giunge il bargello seguito dall’abate perigordino e da una
squadra. - Questi son dunque, dic’egli, que’ due forastieri sospetti?
Ei li fa tosto legare, e ordina ai suoi famigli di condurli in prigione. - Non si trattan così i forastieri nell’Eldorado, dice Candido. - Io son manicheo più che mai, dice
Martino. - Ma, signore, dove ci conducete? soggiunse Candido. - In un fondo di segreta, risponde il bargello.
Martino, riprendendo la sua mente fredda, giudicò che la dama che si pretendeva
Cunegonda fosse una furfante; un furfante il signor abate; che si era così presto
servito dell’innocenza di Candido, e un altro furfante il bargello, da cui si potessero facilmente sbrogliare.
Candido, piuttosto che esporsi alle procedure della giustizia, e d’altra parte impaziente di rivedere la vera Cunegonda, si attenne al consiglio di Martino, e offrì al bargello tre piccoli diamanti di circa tremila pezze l’uno. - Ah signore, gli disse l’uomo del baston d’avorio, quando aveste commessi tutti i delitti immaginabili, siete il più galantuomo del mondo: tre diamanti! Signore, io mi farei ammazzar per
voi, non che condurvi in carcere: tutti i forastieri si arrestano; ma lasciate fare a me: ho un fratello a Dieppe in Normandia, voglio condurvici, e se avete qualche diamante da dargli egli avrà cura di voi, come io stesso.
- E perchè si arrestano i forastieri? - Perchè, dice allora l’abate perigordino prendendo la parola, un birbante del paese d’Atrebazia ha sentito fare e tanto e bastato per fargli commettere un parricidio, non come quello del 1610 del mese di
maggio ma come quello del 1513 nel mese di dicembre, e come diversi altri commessi in altri anni, e in altri mesi da altri birbanti, che avevano inteso dello sottigliezze.
Il bargello spiegò allora di che si trattava. - Ah, mostri dell’umanità, gridava Candido; tali orrori fra un popolo che balla e che canta! non potrei io uscire al più presto di questo paese ove le scimmie attizzano le tigri? Io ho veduto degli orsi nel mio paese, e non ho veduto degli uomini che nell’Eldorado. In nome di Dio, signor bargello, menatemi a Venezia, ove devo attendere la mia Cunegonda. - Io
non posso menarvi che nella bassa Normandia, dice il bargello.