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- Ah, dice Candido, se fosse qui Pangloss ei lo saprebbe. - Io non so, ripiglia Martino con quali bilance il vostro Pangloss potrebbe pesare l’infelicità degli uomini e valutare i lor dolori; io son di sentimento che vi sieno de’ milioni d’uomini sulla terra da compiangersi molto più del re Carlo Odoardo, dell’imperatore Ivan e

del sultano Acmet. - Potrebb’essere risponde Candido.

Arrivarono in pochi giorni sul canale del mar Nero. Candido cominciò dal

riscattare Cacambo a caro prezzo e senza perder tempo, s’imbarcò sopra una galera co’ suoi compagni, per andare sulla riva della Propontide a cercar

Cunegonda, per quanto brutta esser potesse.

Vi erano fra la ciurma due forzati che remavano malissimo, e a’ quali il padrone levantino applicava di tempo in tempo alcune nerbate sulle nude spalle. Candido,

per una naturale compassione, gli osservava più attentamente degli altri galeotti,

e s’avvicinò tutto pietoso verso di loro. Alcuni tratti del viso disfigurato di due di quei miserabili gli parvero aver qualche similitudine con Pangloss, e col

disgraziato gesuita, quel barone, quel fratello di madamigella Cunegonda. Tali somiglianze lo intenerirono e lo attristarono; e sempre più considerandoli

attentamente, disse a Cacambo: - Se io non avessi veduto impiccare il maestro Pangloss, e se non avess’io, per mia disgrazia, ammazzato il barone, crederei che fossero quelli là che remano.

Al nome del barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si fermarono

sul loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino accorse, e raddoppiò loro lo nerbate. - fermate, fermate, signore, grida Candido, io vorrei… -

Come! questo è Candido! si dicono l’un l’altro i due forzati. - Sogno, dice Candido,

o son desto? Son io in questa galera? È quello là il signor barone che ho ammazzato? e quello là il maestro Pangloss, che io ho veduto impiccare?

- Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. - Come! è quello là il gran filosofo? dicea

Martino. - Eh, signor padrone! dice Candido, qual somma volete voi per il riscatto

di Thunder-ten-tronckh, uno de’ primari baroni dell’impero, e del signor Pangloss,

il più profondo metafisico dell’Alemagna? - Can di cristiano, risponde il levantino

padrone, giacchè questi due cani di forzati cristiani son baroni e metafisici, che sono, senza dubbio, dignità grandi nel lor paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. - Voi li avrete, signore, conducetemi come un fulmine a Costantinopoli, e

li avrete addirittura; ma no, conducetemi da madamigella Cunegonda. Il padrone

levantino, alla prima offerta di Candido, aveva girata la prora verso la città, e

facea remare con maggior impeto d’un uccello che fenda l’aria.

Candido abbracciò cento volte il barone e Pangloss. - E come non vi ho io ammazzato mio caro barone? e come, mio caro Pangloss siete restato in vita dopo d’avervi veduto impiccare? e perchè siete tutti e due in galera in Turchia? -

È vero che mia sorella sia in questo paese? diceva il barone. - Sì, rispose Cacambo. - Io rivedo dunque il mio caro Candido, gridava Pangloss.

Candido presentò loro Martino e Cacambo; tutti si abbracciarono, e parlavan tutti

a una volta; la galera volava ed eran già nel porto. Si fece venire un ebreo a cui

Candido vendè per cinquantamila zecchini un diamante del valor di centomila, perchè l’ebreo giurò per Abramo che non potea pagarlo di più. Candido pagò incontanente il riscatto del barone o di Pangloss. Questi gettossi ai piedi del suo

liberatore e lo bagnò di lacrime; l’altro lo ringraziò con un segno di testa, e promise di rendergli il danaro alla prima occasione.

- Ma è possibile, diceva questi, che mia sorella sia in Turchia? - Niente di più possibile, riprese Cacambo, giacchè ella lava i piatti in casa di un principe di Transilvania.

Si fecero immediatamente venir due ebrei; Candido vendè nuovamente alcuni

diamanti, e tutti si rimbarcarono in un’altra galera per andare a liberare Cunegonda.

CAPITOLO XXVII (torna all’indice)

Ciò che accade a Candido, a Cunegonda, a Pangloss, a Martino, ecc.

- Perdono, per questa volta, dice Candido al barone, perdono, mio reverendo padre, di avervi dato una stoccata traverso il corpo. - Non ne parliamo più, risponde il barone: io fui un po’ troppo vivo, lo confesso ma giacchè, volete sapere

per quale avventura mi avete veduto in galera, vi dirò, che dopo d’essere stato guarito della mia ferita dal padre speziale del collegio, fui attaccato e preso da un partito spagnuolo, e fui messo in prigione a Buenos-Aires nel tempo che mia sorella ne partiva. Chiesi di tornare a Roma presso il padre generale, e fui nominato per servire quale elemosiniere a Costantinopoli l’ambasciatore di

Francia. Non erano otto giorni ch’io era entrato in funzione, quando trovai sulla sera un giovine turco; facea molto caldo; il giovine volle bagnarsi, ed io presi quell’occasione per bagnarmi anch’io. Io non sapea che fosse un delitto capitale

per un cristiano l’esser trovato nudo con un giovine musulmano; un cadì mi fece

dare cento bastonate sotto le piante de’ piedi, e mi condannò alla galera. Io credo

che non possa darsi una più orribile ingiustizia. Ma vorrei sapere perchè mia sorella è nella cucina d’un principe di Transilvania, rifugiato fra’ Turchi? -.

- Ma voi, mio caro Pangloss, come può darsi che io vi riveda? - È vero, dice

Pangloss che voi mi avete veduto impiccare; io dovea naturalmente esser bruciato, ma vi ricorderete che piovve a distesa, allorchè si volea cuocermi; la tempesta fu sì violenta, che si disperò di accendere il fuoco; fui impiccato, perchè

non si potea fare di meglio; un chirurgo comprò il mio corpo, e mi condusse a casa sua per notomizzarmi. Mi fece tosto un’incision crociale dall’ombelico fino alla clavicola. Io non, potea essere stato impiccato peggio di quel che lo era: l’esecutore dell’alte opere della santa Inquisizione, il quale era suddiacono, bruciava invero la gente a maraviglia, ma non era accostumato ad impiccare: la corda era bagnata, e scorse male: il nodo era altresì mal fatto; insomma io respirava ancora. L’incisione crociale mi fece alzare un sì gran strido, che il mio chirurgo cadde indietro, e credendo di notomizzare il diavolo, mezzo morto di paura fuggì ruzzolando per la scala. A quello strepito corse la moglie da un gabinetto vicino e vedendomi disteso sulla tavola coll’incision crociale, ebbe maggior paura di suo marito, fuggì e cadde sopra di lui. Quando furono un poco

rinvenuti, io sentii che la chirurga diceva al chirurgo: - Mio caro, perchè proporti di notomizzare un eretico? non sai che il diavolo e sempre nei corpi di simil gente?

Io vado ora a cercare un prete per esorcizzarlo.

Raccapricciai a tal proposizione, e raccolsi le poche forze che mi restavano per gridare: -Abbiate pietà di me. Allora il barbiere portoghese riprese l’ardire, e ricucì la mia pelle; la sua moglie medesima prese cura di me, ed io fui libero in termine

di quindici giorni. Il barbiere mi trovò da servire, e mi fece lacchè d’un cavalier di Malta che andava a Venezia, ma non avendo il mio padrone di che pagarmi, io mi

misi al servizio di un mercante veneziano, e lo seguii a Costantinopoli.

Un giorno mi venne la fantasia di entrare in una moschea; non v’era che un vecchio imano, e una giovine bacchettona molto bella che diceva i suoi

paternostri; sul seno aveva un bel mazzetto di tulipani, di rose, d’anemoni, di ranuncoli, di giacinti e d’orecchie d’orso. Ella lasciò cadere il suo mazzetto, ed lo con una fretta rispettosissima glielo raccolsi, ma l’imano entrò in collera, e vedendo che io era cristiano gridò al sacrilegio. Fui menato dal cadì, egli mi fece

dare cento staffilate sotto le piante de’ piedi, e mi condannò alla galera. Fui incatenato appunto nella galera e al banco medesimo del signor barone. V’erano

Are sens