diede occasione a’ nostri filosofi di ragionare sulla ridicola vanità de’ mortali. - Non sarebb’egli più ragionevole, disse un di loro, che i parenti e gli amici del morto portassero da sè la bara funebre, senza pompa e senza susurro? Questa trista incombenza con rappresentar loro l’idea della morte, non produrrebb’ella in loro il
più salutare effetto, e il più filosofico? Questa riflessione che verrebbe da sé: Il corpo che io porto è quello del mio amico, è quello del mio parente. Egli ha finito d’essere, e così devo far io nè più nè meno, non sarebb’ella capace di risparmiar molti delitti a questo globo sciagurato, e di ricondurre sulla buona strada quegli esseri che credono nell’immortalità dell’anima? Purtroppo gli uomini son portati a
sbandir da sè; il pensiero della morte, perchè sia a temersi di presentarne loro delle immagini troppo vive. Perchè allontanare da questo spettacolo una madre e
una sposa piangente? Le voci lamentevoli della natura, lo acute strida della disperazione, onorerebbero molto più le ceneri di un defunto, che tutti questi individui abbrunati da capo a’ piedi, questa ciurma di ministri, che salmeggiano allegramente delle preci che non intendono.
- Benissimo detto! rispose Candido. Se voi parlaste sempre così, senza che vi venisse il ticchio di picchiar la gente, voi sareste un gran filosofo.
I nostri viaggiatori si separarono profondendosi in attestazioni dl confidenza e d’amicizia. Candido, pigliando la strada di Danimarca, entrò dentro a un bosco, e
rimuginando fra sè tutte le sciagure occorsegli nel miglior de’ mondi possibili, escì di strada e si smarrì. Il giorno cominciava a calare quando s’accorse dello sbaglio:
si perdè di coraggio, ed alzando tristamente gli occhi al cielo appoggiato ad un tronco d’albero il nostro eroe parlò in questi termini: - Io ho scorso mezzo mondo;
ho veduto trionfar la calunnia e la frode; non ho cercato che di far bene al prossimo, e ne sono stato perseguitato: un gran re mi onora del suo favore, e mi
fa dare cinquanta nerbate solenni; arrivo con una gamba di legno in una
bellissima provincia, a vi gusto i piaceri, dopo essermi abbeverato di fiele e d’amarezza; arriva un abate, io me ne fo il protettore; egli s’insinua alla corte, ed eccomi costretto a baciargli i piedi… Incontro il mio povero Pangloss, ma solo per
vederlo bruciare… Mi trovo con de’ filosofi, la più dolce e più sociabile specie animale dell’universo, e mi picchiano senza misericordia. Bisogna che tutto vada
bene, giacchè Pangloss l’ha detto, ma non per questo non son io il più sciagurato
di tutti gli esseri possibili.
Interruppe Candido il suo parlare per porgere l’orecchio a delle altissime strida che sembravano escir da un luogo vicino. S’avanza per curiosità e se gli presenta
allo sguardo una giovine che si strappava i capelli con tutti i segni della più fiera disperazione. - Chiunque voi siete, gli diss’ella, se avete cuore in petto, seguitemi!
S’accompagnano, e avean fatto appena pochi passi che Candido vede stesi
sull’erba un uomo e una donna. Dalla loro fisonomia traspariva la nobiltà del loro
animo e della lor nascita, e le loro sembianze, benchè contraffatte dal dolore che
provavano, avevano tanta nobiltà, che Candido non potè fare a meno di
compiangerli e di cercar con una viva premura la cagione che avevali ridotti in sì
compassionevole stato. - Questi che voi vedete son mio padre e mia madre, gli disse la giovinetta, sì; gli autori son questi degl’infelici miei giorni (continuò ella gettandosi precipitosamente fra le loro braccia). Fuggivano per evitare il rigore di
una ingiusta sentenza; io compagna della lor fuga, ero abbastanza contenta di divider con essi le loro sciagure, e di pensare che fra’ deserti, ove andavano ad
albergare, queste mie deboli mani avrebbero potuto procurar loro il necessario alimento. Ci siamo fermati qui per pigliare un poco di riposo; ho scoperto l’albero
che vedete, e il suo frutto mi ha tradita. Oh Dio, signore, io sono una creatura in
odio all’universo e a me stessa. S’armi il vostro braccio per vendicar la virtù offesa, per punire un parricidio. Ferite! Questo frutto… Io ne ho presentato a mio
padre e a mia madre, essi ne han mangiato con piacere, ed io mi applaudivo d’aver trovata la maniera di smorzar loro la sete che tormentavali; me infelice! La
morte avevo lor presentata: questo è veleno!
Raccapricciò Candido a questo racconto, se gli rizzarono i capelli sul capo, e un
sudor freddo gli scorse per tutto il corpo. S’ingegnò, per quanto permettevangli le
circostanze, di dare ajuto a quella sfortunata famiglia ; ma il veleno aveva già fatto
troppo progresso, e i più efficaci rimedj non avrebber potuto arrestarne il funestissimo effetto
- Cara figlia, unica nostra speranza, esclamarono i due infelici, perdona te stessa,
come noi ti perdoniamo. Un eccesso in te di tenerezza è quel che ci toglie la vita… Generoso straniero, degnatevi aver cura de’ suoi giorni, ella ha il cuor nobile e formato alla virtù; questo è un deposito, che lasciamo alla vostra mano,
infinitamente per noi più prezioso, che tutta la nostra passata fortuna… Cara Zenoide, ricevi i nostri ultimi baci; mescola le tue colle nostre lacrime. Oh cielo che deliziosi momenti son mai questi per noi! Tu ci hai aperta la porta della prigion tenebrosa in cui da quarant’anni languivamo. Tenera Zenoide, noi ti benediciamo.
Ah non possa tu mai scordarti di quelle lezioni che ti ha dettate la nostra prudenza, e possan queste preservarti da quell’abisso che vediamo aprirtisi sotto i
piedi!
Spirarono nel pronunziar queste ultime voci. Candido durò gran fatica a far ritornare in sè Zenoide. La luna avea illuminato la lacrimevole scena, e compariva
già il giorno senza che Zenoide, immersa in una cupa afflizione, avesse ancor ripreso l’uso de’ sensi. Appena ebb’ella aperto gli occhi, prega Candido di fare in
terra una fossa per riporvi i cadaveri, e vi lavorò anch’ella con un maraviglioso coraggio. Compito questo dovere, lasciò libero il corso al piantò. Il nostro filosofo la trascinò lontano da quel luogo fatale, e camminarono un pezzo senza tenere una strada fissa, finchè scopersero una capannaccia.